«L’oscurità che circonda il “modello Albania” non è un incidente di percorso, ma una precisa grammatica di governo». Il carattere che emerge maggiormente dal rapporto presentato il 29 luglio alla Camera dal Tavolo asilo e immigrazione (Tai) è l’opacità che avvolge la gestione dei centri per migranti costruiti dall’Italia in Albania, in base al protocollo siglato con Tirana a novembre 2023.

Il secondo report del Tai si concentra sulla nuova fase di quello che il governo chiama “modello Albania”, a partire da marzo 2025, quando l’esecutivo ha ampliato la funzionalità delle strutture di Gjadër: da centro di trattenimento per le persone salvate in acque internazionali dalle autorità italiane è diventato centro di permanenza per il rimpatrio, il 12esimo Cpr, dove trasferire persone già trattenute nei centri italiani. 

La nuova destinazione d’uso, si legge nel rapporto, «si pone in continuità solo con l’obiettivo della propaganda di stato». Non è possibile trovare logica o efficacia dietro a questa decisione: da un lato, un rimpatrio, se effettivamente percorribile, non necessita di uno spostamento in Albania; se invece non è possibile, «la deportazione risulta ancora più inutile, arrivando ad apparire come una pura messa in scena». 

La difficoltà a trovare una ragione operativa, dietro la scelta di trasformare le strutture in Cpr, si accentua considerando il numero di persone trasferite e rimpatriate – «circa 132 le prime e 32 le seconde» – e la previsione di spesa di almeno 800 milioni in circa cinque anni, da cui «emerge il totale disprezzo per l’interesse pubblico», scrive il Tai. 

Blackout informativo

Non solo un costo economico, ma anche umano e per la democrazia, denunciano le associazioni durante la conferenza stampa. «L’opacità ricade sulla pelle delle persone e sull’intera comunità italiana», dice Serena Chiodo di Amnesty International, per «l’assenza di informazioni sui costi ingenti di questa operazione e le ricadute sulla dignità umana e sui diritti, considerata l’assenza di criteri alla base dei trasferimenti a Gjadër».

Per il Tavolo asilo quello che definiscono un «blackout informativo», la totale assenza di informazioni da parte dell’esecutivo, non è casuale ma «funzionale a ridurre la possibilità di presa di parola consapevole da parte della società civile». E, diventa, «essa stessa dispositivo di potere» perché, in questo modo, si toglie lo sguardo vigile della società civile, delle ong, dei movimenti e della stampa dalle persone trattenute, svuota i diritti e depotenzia la critica pubblica.

L’accesso alle informazioni è stato negato anche agli stessi parlamentari che, insieme ai garanti e a pochi altri soggetti, hanno un potere ispettivo. Non sono infatti state fornite le liste delle persone trattenute, né indicazioni sulle nazionalità o sulle modalità dei trasferimenti. Anche l’accesso civico generalizzato, il Foia, si è rivelato un «guscio vuoto», perché «incompatibile con la rapidità con cui avvengono trasferimenti, udienze accelerate e rimpatri». 

Ne esce un quadro di opacità istituzionale che, sottolinea il Tai, «non è neutra»: depotenzia il parlamento, disattiva il controllo istituzionale e depaupera il controllo sociale, sottraendo così lo spazio della decisione alla sfera pubblica e consolidando «un laboratorio di autoritarismo». Perché, scrivono, «non esiste sicurezza senza trasparenza democratica».

C’è un altro modo con cui si sta cercando di limitare la capacità di monitoraggio della società civile. Emerge da una circolare del ministero dell’Interno dello scorso aprile che tenta di restringere i poteri ispettivi di alcuni soggetti, limitando la possibilità di ingresso a collaboratori e personale specializzato, come ad esempio i membri del Tai, che hanno competenze per analizzare condizioni e casi all’interno delle strutture. Lo ha denunciato in conferenza stampa la deputata del Partito democratico Rachele Scarpa, parte del gruppo di parlamentari che ha effettuato le visite nei centri albanesi.

Il trasferimento

«I Cpr in Italia hanno posti liberi, non c’è un motivo dietro alla decisione di rendere Gjadër il 12esimo centro», segnala Filippo Miraglia, responsabile immigrazione di Arci. Invece, 132 persone sono state trasferite «senza un provvedimento scritto e motivato». Nessun ordine, individuale o collettivo di trasferimento. Un obbligo, quello di motivazione, che trova il suo fondamento nell’articolo 13 della Costituzione, a tutela della libertà personale. 

Non solo. Durante il trasferimento, sono state adottate misure coercitive, denuncia il rapporto, «in modo del tutto arbitrario e in violazione della normativa vigente». E, quindi, fascette ai polsi per un tempo prolungato, usate indiscriminatamente, senza nessuna valutazione individuale del rischio: una prassi, «con modalità qualificabili come disumane e degradanti», lesiva della dignità. A ciò si aggiunge che i trattenuti non mai stati informati, durante il viaggio, della destinazione finale. 

Il diritto alla salute

Non solo in Albania, ma in tutti i Cpr sono negati i diritti fondamentali: «Sono luoghi inadatti alla vita», «luoghi psicopatogeni», dove c’è una tendenza a sedare. Il diritto alla salute nei Cpr in Italia, e ancor di più nel centro di Gjadër, segnala il rapporto, non è garantito. A partire da una diversità sostanziale del servizio tra le strutture sanitarie albanesi e quelle italiane. 

L’assistenza sanitaria è affidata al privato: così, si legge, oltre all’extraterritorialità geografica si assiste a un’extraterritorialità sanitaria, «con una conseguente riduzione delle possibilità di controllo da parte del sistema sanitario nazionale e della chiarezza delle responsabilità». 

Le organizzazioni segnalano che non viene fatta alcuna nuova valutazione di idoneità al trattenimento, nonostante il trasferimento, e che anche in questo centro extra Ue l’uso di psicofarmaci è massiccio. È poi evidente la violazione del diritto a ricevere informazioni legali, ad accedere alla difesa, alla tutela giurisdizionale, all’integrità psicofisica e alla dignità.  

«L’isolamento forzato», conclude il Tai, «non è solo una condizione materiale, ma una condizione sistemica di marginalizzazione che rende le persone invisibili, silenziose e passive, contribuendo a una disumanizzazione istituzionalizzata ancora più estrema rispetto ai Cpr sul territorio italiano».

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