C’è qualcosa di profondamente religioso – e al tempo stesso post-religioso – nel modo in cui oggi si beve senza bere. Un nuovo tipo di rito si fa largo tra gli scaffali e le carte da bar: silenzioso, elegante, carico di simbolismo. Non più lo stordimento, ma la lucidità come sacramento. Non più il vino che scalda e confonde, ma la bevanda pura che unisce e conferma l’appartenenza. È un mondo in cui le bollicine parlano sottovoce, i toni sono vegetali, il grado alcolico è zero, e tuttavia – o forse proprio per questo – il gesto resta sacro. Un calice sollevato, un sorso condiviso, un’identità dichiarata.

Oggi il vino da messa è tornato. Ma non si serve più in chiesa, e non è più solo vino. È kombucha su misura, shrub artigianale, acqua tonica fermentata, bitter analcolici da trenta euro a bottiglia. È l’estetica del bere, senza la colpa dell’aver bevuto. Un ritorno all’essenza simbolica della bevanda, ma dentro le forme seducenti del design contemporaneo.

E non è un gioco: è un bisogno. Di sacralità, di comunità, di rituali condivisi in un tempo che ha perso i propri. In un’epoca in cui si è smesso di credere nei dogmi ma si continua ad avere fame di senso, anche il bicchiere diventa messaggio.

Le nuove bevande no alcol, nonostante l’apparente leggerezza, sono in realtà cariche di significati. Promettono una grazia senza colpa, una socialità senza eccessi, una bellezza senza conseguenze. Il linguaggio pubblicitario le accompagna con toni quasi liturgici: “guilt-free”, “clean”, “ritual”, “reimagine your drink”. Un’estetica purificata che rievoca il bianco delle tuniche battesimali, la trasparenza dell’acqua santa. Ogni sorso diventa un atto di conferma: io sono questo. Non beviamo più per sbandare, ma per restare fermi. Per rafforzare il nostro stare al mondo, la nostra immagine, la nostra disciplina.

Il simbolo

Eppure, se si guarda con attenzione, questa rivoluzione sobria ha qualcosa di già visto. C’era un tempo in cui anche il vino era meno vino, più simbolo. Quando nella messa cattolica si alzava il calice, non lo si faceva per l’aroma o per il corpo del vitigno: era un gesto di trasformazione, di unione, di trascendenza. Il vino era il sangue, il pane era il corpo, la tavola era l’altare. Non importava che sapore avesse, né da quale vigna provenisse. Importava che fosse lì, che sancisse un patto.

Oggi accade lo stesso, ma in altri luoghi, con altre parole. Nei bar del nord Europa, nei concept café delle grandi capitali, nelle cene tra amici dove il cocktail è fatto con estratti di radice e acque aromatiche, il gesto è simile: condividere un sorso per dire “siamo insieme”. Senza bisogno di sballarsi. Senza bisogno di perdersi. Una comunione laica e fotogenica, che se condivisa sui social è ancora meglio.

Il bere analcolico non è più una scelta di minoranza, ma una nuova norma sociale in costruzione. Una forma di adesione a una visione del mondo in cui il corpo è tempio, la mente deve restare sveglia e la produttività è una religione non dichiarata.

Le giovani generazioni – in particolare Gen Z e millennial urbani – non rinunciano al rito, ma ne riscrivono le regole. Non dicono “Non bevo”, dicono “Bevo altro”. E questo “altro” è spesso il frutto di una narrazione sofisticata, complessa, desiderabile.

Mocktail con distillati analcolici fatti con tecniche da profumeria, vini dealcolati con bouquet che sfidano la semantica tradizionale, fermentati dai nomi evocativi. Tutto è pensato per essere raccontato, mostrato, condiviso. La sobrietà è diventata cool, il controllo è sexy.

E chi rifiuta l’alcol, in fondo, non rifiuta il bere: ne reinventa il senso. Lo sposta su un altro piano. Il bicchiere resta pieno, ma il contenuto è depurato, quasi spirituale. Un gesto di bellezza e consapevolezza che non ha bisogno di intossicazione per essere memorabile.

Bere diversamente

A fare da controcanto, resta una parte di mondo ancora legata all’idea romantica dell’alcol come scintilla, come smarginatura. Il vino rosso che macchia il tovagliolo, il whisky che accende le serate sbagliate, il gin che diventa confessione. Eppure, anche qui, la tendenza cambia. Sempre più locali fine dining offrono pairing analcolici. Sempre più carte dei vini includono alternative no alcol. Sempre più brunch sono aperti da un bitter “senza peccato”.

Il nuovo vino da messa, insomma, è ovunque. Nei supermercati di fascia alta. Nei bar degli aeroporti internazionali. Nei frigo delle start-up creative. Nelle mani di chi ha appena finito di fare yoga.

Non si beve per ubriacarsi, ma per ribadire un’appartenenza. Non si alza il gomito, ma il livello del discorso. E se qualcuno osa ancora ridere di un cocktail senza alcol è solo perché non ha ancora capito che qui non si tratta di bere meno. Si tratta di bere diversamente.

Sotto la superficie frizzante del marketing, c’è un fenomeno culturale profondo. La sostituzione del peccato con il controllo. Della perdita con la forma. Del piacere irrazionale con un’estetica razionale. E in tutto questo, la figura del calice resta centrale. Come se l’umanità avesse bisogno, in ogni epoca, di un bicchiere dentro cui vedere riflessa la propria identità. Una coppa che non disseta, ma conferma. Che non toglie la sete, ma la trasforma in linguaggio.

Il vino da messa era il sangue del sacrificio. Il vino no alcol di oggi è il succo dell’illuminazione. Ma entrambi parlano a qualcosa di più profondo della gola. Parlano al bisogno di appartenere. Di celebrare. Di condividere un tempo. Una tavola. Una visione.

In questo senso, l’epoca dell’astinenza performativa e del bere simbolico non è un’epoca più povera. È solo un’epoca diversa. Che ha spostato l’estasi dal fegato al feed. Che cerca il sacro in un bicchiere, ma senza bisogno di perdersi per ritrovarsi.

Il nuovo vino da messa è già tra noi. Brilla nella sua bottiglia satinata, promette purezza, unisce senza sbandare. È il calice che solleviamo quando abbiamo smesso di credere nel paradiso, ma non abbiamo ancora smesso di cercare un modo per stare insieme.

Quindi, in fondo, non stiamo davvero smettendo di bere. Stiamo solo bevendo altro. Diversamente. Con altre intenzioni, altri obiettivi, altri pubblici davanti.

Non cerchiamo più l’oblio, ma lo specchio. Non il capogiro, ma l’identità. Il bere è diventato linguaggio visivo, estetica personale, dichiarazione esistenziale. Bevo, dunque sono. Ma sono cosa? Sono lucido, performante, pulito, sostenibile, coerente con l’immagine che costruisco e mostro. Bevo ciò che mi somiglia.

E in questo gesto così apparentemente innocuo, si condensa un’intera idea di società: quella che ha smesso di cercare la salvezza nei riti religiosi, ma che non ha smesso di cercare una forma di redenzione.

Il no alcol è diventato il nuovo rito di passaggio borghese, il battesimo contemporaneo delle coscienze civili. Non si beve più per dimenticare, ma per affermare: che si è padroni di sé, attenti, sensibili, meglio se minimalisti. La purezza è il nuovo status symbol. E allora ecco la tavola come altare, il bicchiere come reliquia. Nessuno vuole più l’ebbrezza, tutti cercano l’intensità. Ma un’intensità sorvegliata, calibrata, senza sbavature. Un’ebrezza sobria, per così dire.
L’ultimo tabù è proprio la perdita di controllo. E così il calice si svuota del suo veleno e si riempie di narrazione. Ciò che beviamo oggi non è solo una scelta alimentare, ma una posizione etica, estetica, relazionale.

Certo, in fondo lo sappiamo: non sarà un bitter al sambuco a salvarci dall’angoscia, né un'acqua fermentata a riconciliarci con la nostra parte più autentica. Ma c’è qualcosa di potente nel gesto condiviso. Nella cura con cui si versa. Nella pausa che si crea tra un sorso e l’altro. Il rituale sopravvive alla sostanza. E forse è questo che conta davvero.

Non è più il vino che ci trasforma, è il modo in cui lo beviamo – o decidiamo di non berlo – a dire chi siamo.

E in un tempo che ha perso molte delle sue certezze, anche un calice senz’alcol può bastare per sentirsi parte. Non guarirà le ferite. Non prometterà la vita eterna. Ma forse, almeno per un istante, ci farà sentire vicini. Uniti. Simbolicamente meno soli.

E oggi, in un mondo saturo di connessioni e povero di riti, questo ha ancora, paradossalmente, il sapore del sacro.


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