È un documento di quattordici pagine in cui l’accusa – nella persona del giudice Nazhat Shameen Khan  – mette nero su bianco le sue precisazioni rispetto alle osservazioni che l’Italia ha depositato presso la Corte penale internazionale ad aprile scorso sul caso Almasri. E cioè sulla vicenda del torturatore libico rimpatriato su un volo di Stato all’inizio dell’anno e per cui la Cpi ha aperto un fascicolo volto ad accertare le responsabilità dello Stato. 

«Oltre tre mesi dopo il rilascio di Almasri l'Italia solleva per la prima volta l'esistenza di una presunta richiesta di estradizione concorrente da parte della Libia. Ma la documentazione fornita dall'Italia non include alcun mandato d'arresto presumibilmente emesso dalle autorità libiche», scrive la procura bacchettando il governo i cui esponenti – la premier Giorgia Meloni, i ministri Nordio e Piantedosi e il sottosegretario Alfredo Mantovano – sono indagati a Roma per la stessa vicenda con le accuse di favoreggiamento e peculato. 

Non solo l’Italia ha applicato «erroneamente l'articolo 90 dello Statuto di Roma», ma ha anche, secondo quanto scrive l’accusa nel documento diretto alla Corte, fatto dell’altro. «Avendo ricevuto due richieste concorrenti su Almasri (quella della Libia, presumibilmente, e quella della Cpi, ndr) non ha dato seguito a nessuna delle due: Almasri – si legge nelle quattordici pagine –  non è stato consegnato alla Corte né è stato estradato (e arrestato) in Libia al suo ritorno. Invece, è stato rilasciato e trasferito in piena libertà a Tripoli, dove è stato accolto da una folla festante». 

Italia «inadempiente»

Ma perché l’Italia sarebbe venuta meno agli obblighi derivanti dallo Statuto di Roma? Le ragioni addotte nelle sue osservazioni sono diverse e l’accusa del caso Almasri le ripercorre (e smonta) punto per punto. «L'Italia sostiene di non essere venuta meno agli obblighi previsti dallo Statuto perché in primo luogo, nell'esercizio dei suoi poteri giudiziari autonomi e indipendenti, la Corte d'Appello di Roma ha ordinato la scarcerazione di Almasri per presunti errori procedurali commessi dalla Polizia italiana al momento del suo arresto. In secondo luogo, il ministro della Giustizia non ha potuto rimediare al presunto errore procedurale (un mero errore tipografico) trasmettendo la documentazione pertinente alla (e come richiesto dalla) procura generale di Roma a causa della presunta richiesta di estradizione libica concorrente e delle presunte incongruenze all'interno del mandato di arresto della Cpi; in terzo luogo, il ministro dell'Interno ha ordinato autonomamente l'espulsione di Almasri dal territorio italiano in quanto si trattava della misura “più rapida” per garantire la sicurezza nazionale». Tuttavia, come detto, per l’accusa qualcosa non quadra. 

Anzitutto «presunte carenze nelle procedure legali nazionali (o interpretazione delle stesse), non possono essere sollevate come scudo per proteggere uno Stato parte dal suo obbligo di cooperare con la Corte, o per compromettere qualsiasi richiesta di inadempienza – si legge nel documento –. L’Italia ha indubbiamente omesso di dare attuazione alla richiesta della Camera di arresto e consegna di Almasri».

Ma poi «se è vero che il governo italiano – continua l’accusa – non poteva interferire con la valutazione di un organo giudiziario indipendente, l'ordine della Corte d'Appello di rilasciare il libico si basa su un'interpretazione errata della legge numero 237/2012: l'arresto effettuato dalla Polizia Giudiziaria di Torino sulla base di una nota Interpol, dopo che l'Italia aveva ricevuto le richieste attraverso il canale diplomatico stabilito, era legittimo e non era viziato da alcun errore procedurale». 

Una contestazione viene fatta, inoltre, anche al ministro della Giustizia Nordio che, sempre secondo l’accusa, «avrebbe dovuto limitarsi a eseguire la richiesta trasmettendola al procuratore generale, considerato che in questi casi non si parla di sua discrezionalità». In definitiva, «il ministro avrebbe potuto e dovuto rimediare ai presunti errori procedurali».

Il mistero del Falcon 

Altro punto messo nero su bianco è un’osservazione ben precisa. Perché «l’Italia non ha consultato la Cpi?». Certo, continua l’accusa «lo Stato ha riconosciuto di non aver consultato la Corte ma le argomentazioni addotte per giustificarsi capovolgono la logica della cooperazione internazionale prevista dallo Statuto di Roma». Poi, si torna sulla presunta estradizione richiesta dalla Libia: «In ogni caso, l’Italia non aveva discrezionalità, avrebbe dovuto rimettersi alla Cpi: era una questione che spettava alla Corte». La conclusione è che il governo abbia «raggiunto le sue conclusioni su premesse giuridicamente e fattualmente errate, favorendo le richieste della Libia e non eseguendo quelle della Cpi». In ultimo l’accusa sottolinea che l’Italia nelle sue osservazioni di aprile “dimentichi” di spiegare «l’utilizzo del Falcon 900 per il rimpatrio». Perché l’uso? «Del resto – si legge ancora – non si richiedeva il trasferimento di Almasri in Libia ma esclusivamente la sua espulsione dal territorio italiano».

Per tutti questi motivi «le osservazioni dell’Italia non forniscono alcuna spiegazione valida per la mancata collaborazione, l’esecuzione delle richieste di cooperazione della Corte e l’adempimento degli obblighi dello Statuto». È così dunque che l’accusa chiede nuovamente alla Cpi di effettuare «una constatazione formale di inadempienza contro l’Italia e di deferire la questione all’assemblea degli Stati parti o al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite».

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