I cittadini bengalesi erano stati trasferiti a Gjader ma i giudici non avevano convalidato il trattenimento. La Commissione aveva negato l’asilo, mentre la sezione specializzata ha ribaltato la decisione e riconosciuto la protezione internazionale e sussidiaria. Storie di sfruttamento lavorativo e di tratta, oltre alle torture subite in Libia
Il Bangladesh non è un paese sicuro. O almeno non lo è per tutti e, come ha ribadito la Corte di giustizia dell’Ue il 1° agosto, occorre valutare caso per caso. Di certo, non lo è per due richiedenti asilo che a ottobre erano stati salvati in acque internazionali dalle autorità italiane e portati in Albania, dove l’Italia ha costruito i centri per migranti. Qui avevano presentato domanda di protezione internazionale ma, con un esame lampo e tempistiche fuori dall’ordinario, la Commissione territoriale aveva rigettato la loro richiesta.
La sezione specializzata del tribunale di Roma in due diverse sentenze ha ribaltato la pronuncia dell’organo amministrativo e riconosciuto la protezione – internazionale e sussidiaria – ai due cittadini bengalesi.
A loro sono state applicate, nell’ambito del protocollo Italia-Albania, le procedure accelerate di frontiera, poiché il Bangladesh è stato aggiunto dal governo Meloni alla lista dei paesi di origine considerati sicuri a maggio 2024, insieme all’Egitto. Non è un caso che i due stati siano tra le nazionalità di maggior ingresso in Italia, e l’origine della maggior parte delle persone trasferite nei centri italiani in Albania, prima che venissero trasformati in Centri di permanenza per il rimpatrio.
Dopo essere stati portati a Gjadër il 18 ottobre 2024, i giudici di Roma non avevano convalidato il loro trattenimento, disponendo la liberazione in Italia. Il giorno prima però il diniego della Commissione, contro cui hanno presentato ricorso.
tratta e sfruttamento
Faisal (nome di fantasia), un uomo di quarant’anni, in Bangladesh faceva attività politica e, vivendo sotto minaccia del fratello, non può più tornare nel suo paese, dove ci sono la moglie e le quattro figlie. Di famiglia povera, è partito per sostenere economicamente le sue figlie e, attraverso un conoscente, è arrivato in Libia. Qui però ha lavorato senza ricevere uno stipendio: «Se lavoravo per un mese mi pagava per tre giorni», ha detto alla Commissione. Finché non è stato venduto alla mafia libica. «Sono stato tenuto prigioniero per cinque mesi», ha raccontato, «mia moglie e le mie figlie sono andati da creditori privati per chiedere ulteriori prestiti». Per la partenza e per il riscatto Faisal e la sua famiglia si sono dovuti indebitare e «ora» i creditori «vanno a casa mia insultano e minacciano mia moglie e le mie figlie per avere la restituzione del debito, non le ammazzano solo perché sono donne», ha spiegato. E «per le pressioni» ha dovuto «fare sposare mia figlia di 17 anni».
Se la Commissione ha considerato non credibile il racconto di Faisal, il collegio del tribunale ha riconosciuto una «forte marginalità economica» a cui si aggiunge la «vicenda migratoria». Quindi, secondo i giudici, il ricorrente è «stato vittima di tratta ai fini di sfruttamento lavorativo» e il rimpatrio lo esporrebbe a un fenomeno pericoloso, quello del re-trafficking. In altre parole, c’è il rischio che diventi vittima di schiavitù moderna per ripagare i debiti, accettando di cadere di nuovo nella rete della tratta e dello sfruttamento lavorativo. Una tesi contraria a quella della Commissione, per cui non ci sarebbe stato «il rischio di un danno grave».
Le dichiarazioni di Faisal sono confermate, scrive il tribunale, anche dai rapporti degli organismi internazionali, che descrivono il Bangladesh come «un paese di origine, transito e destinazione per uomini, donne e bambini costretti a lavoro forzato o alla prostituzione». Più si è poveri, più si è vulnerabili alla vittimizzazione da parte dei trafficanti, che usano l’inganno promettendo lavoro all’estero.
A questo si aggiunge la crisi climatica, che «sta emergendo come causa principale della tratta», si legge. La zona da cui proviene l’uomo è spesso colpita da alluvioni e la casa in cui viveva si trova vicino al fiume: «Per circa tre mesi l’anno, non si poteva lavorare la terra e metà della casa era sott’acqua», ma continuavano a vivere lì perché «non sapevamo dove altro andare». Ogni volta che si svuotava dall’acqua, la casa andava ricostruita, ha precisato l’uomo, a cui il tribunale ha riconosciuto la protezione internazionale condannando la Commissione e il Viminale al pagamento delle spese.
La libia, le torture, i debiti
Anche a Imran (nome di fantasia) i giudici hanno riconosciuto la tutela: la protezione sussidiaria, perché se tornasse nel paese di origine «correrebbe il rischio di essere soggetto a un fenomeno di sfruttamento e di subire trattamenti inumani e degradanti».
In Bangladesh, scrive il tribunale, molti cittadini non hanno accesso alle banche e il rischio di diventare vittime di usura è alto. Imran, come Faisal, «in condizione di profonda indigenza economica», ha dovuto indebitarsi non solo per partire ma anche per essere liberato dalla mafia libica, che lo aveva rapito, bendato, imprigionato e torturato per 18 giorni. «Se ritorno adesso non riuscirò mai a pagare i miei debiti», ha detto alla Commissione, secondo cui le dichiarazioni erano credibili ma non sufficienti per l’accoglimento della domanda.
Lo sfruttamento e la tratta che emergono dalle due storie, rileva la sezione specializzata, sono stati ignorati dall’organo amministrativo, mentre sono confermati anche dalle fonti internazionali. Per questo, anche se lo stato è nella lista dei paesi sicuri, non può essere considerato tale per tutte le situazioni. Da qui la necessità – al contrario di quanto afferma il governo – che i giudici valutino caso per caso.
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