Dopo uno stop di cinque mesi, sono ripresi oggi a Vienna i colloqui sul nucleare iraniano. I negoziati rappresentano il settimo giro di discussioni dal 6 aprile 2021, e coinvolgono Cina, Russia, Francia, Regno Unito, Germania e Stati Uniti. 

L’accordo sul nucleare iraniano (Jcpoa, Join comprehensive plan of action) è stato firmato nel luglio del 2015, e originariamente prevedeva il rallentamento del programma nucleare militare iraniano in cambio della rimozione di alcune delle sanzioni internazionali imposte contro Teheran.

Un difficile accordo

Nel 2002, la notizia dell’esistenza di due siti nucleari clandestini in Iran allarmò la comunità internazionale, che temeva un progetto militare da parte dell’Iran. Stando ai trattati che aveva firmato, il paese avrebbe dovuto informare la comunità internazionale dell’esistenza di questi impianti, e sottoporli alle verifiche dell'Agenzia internazionale per l’energia atomica (Iaea).

Dal 2006 al 2013 il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha emesso nove risoluzioni, imponendo all’Iran sanzioni economiche (incluso il blocco delle esportazioni di petrolio) e l’embargo. Ulteriori restrizioni sono state imposte dagli Stati Uniti, con gravi ricadute sull’economia nazionale.

Da allora i rapporti dell’Iran con la comunità internazionale sono stati altalenanti, fino a che nel 2013 – su iniziativa dell’amministrazione guidata dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama – sono iniziati i colloqui che hanno portato alla definizione dell’accordo Jcpoa, Joint Comprehensive Plan of Action. L’Iran si era impegnato a eliminare le sue riserve di uranio a medio arricchimento, a tagliare del 98 per cento quelle a basso arricchimento, e a ridurre di due terzi le sue centrifughe a gas – fondamentali per produrre combustibile – nell’arco di tredici anni.

Gli Stati Uniti si erano impegnati a non introdurre nuove sanzioni, né a riprendere quelle che erano state sospese dopo il negoziato. Lon avevano definito un accordo storico che era stato però accolto con sfavore dalla destra statunitense e da Israele, nemica regionale dell’Iran.

Gli anni di Trump

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Su sollecitazione di Israele, e nonostante il parere contrario degli alleati europei, nel 2018 Donald Trump ha deciso di uscire unilateralmente dall’accordo, ripristinando tutte le sanzioni e aggiungendone di nuove. L’embargo petrolifero, in particolare, ha messo in ginocchio l’economia iraniana (che per il 70 per cento si basa proprio sul mercato del petrolio).

L’8 ottobre 2020, Trump ha aggiunto sanzioni sull’intero comparto produttivo, escludendo il paese anche dal commercio di cibo e medicinali. In un primo tempo l’Iran provò a restare unilateralmente nell’accordo, sollecitando l’Unione europea a muoversi per far aderire nuovamente gli Stati Uniti. Dopo mesi di inutili appelli, e dopo diversi eventi considerati come attacchi all’Iran – le più gravi, a gennaio e novembre 2020, sono le uccisioni del veneratissimo generale iraniano Qasem Soleimani e di Mohsen Fakhrizadeh-Mahabadi, direttore del programma nucleare iraniano – il paese, con la spinta del presidente Hassan Rouhani, ha iniziato nuovamente ad arricchire l’uranio, a una percentuale sempre maggiore.

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L’arrivo di Biden e la ripresa dei negoziati

Nel gennaio 2020 Trump ha lasciato in eredità al suo successore, Joe Biden, una fragile situazione geopolitica. Già dall’inizio della campagna elettorale, l’allora candidato democratico ha espresso l’intenzione di negoziare nuovi accordi, anche se una parte della politica iraniana preferirebbe una restaurazione dell’accordo del 2018.

A marzo l’Iran ha rifiutato l’offerta avanzata dall’Unione europea di tenere negoziati diretti con gli Stati Uniti e ha prediletto la via indiretta. L’uso di intermediari è una procedura piuttosto frequente nelle situazioni più tese. È stata istituita una commissione di cui fanno parte i paesi del precedente accordo esclusi gli Usa. La delegazione americana, guidata da Robert Malley, non partecipa ora direttamente ai lavori, ma viene regolarmente informata e porta avanti proposte attraverso gli intermediari.

L’incognita Raisi

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Le elezioni iraniane con la vittoria del presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi su Rouhani sono diventate un nuovo ostacolo. Nella sua prima conferenza, il 21 giugno, Raisi da una parte ha approvato i negoziati, ma dall’altra ha chiesto che vengano eliminate le sanzioni.

Lo stesso Raisi era stato colpito dalle sanzioni statunitensi del 2019, per il suo presunto ruolo in esecuzioni di massa e nella repressione di proteste pubbliche. È accusato dagli statunitensi di aver fatto parte di una “commissione della morte” che ordinò la cattura e l’uccisione di migliaia di prigionieri politici nel 1988 obbedendo a una decisione dell’allora ayatollah Ruhollah Khomeini.

La formazione del nuovo governo ha portato a uno slittamento di cinque mesi nella convocazione della Commissione che discute l’accordo.

Cosa dobbiamo aspettarci adesso

Florian Schroetter

Diversi osservatori internazionali guardano oggi ai negoziati con scetticismo. La nuova squadra iraniana inviata dal presidente Raisi avanza infatti richieste che gli Stati Uniti e i paesi europei considerano eccessive e irrealistiche: tra le altre cose, chiedono di abolire tutte le sanzioni imposte all’Iran dal 2017 a oggi, comprese quelle non legate al nucleare.

Il programma di arricchimento iraniano continua abbastanza spedito. Secondo il centro studi americano Arms control association, l’Iran potrebbe essere in grado di costruire una bomba atomica nel giro di un mese circa. Sarebbe un punto di non ritorno al quale, con tutta probabilità, il presidente Raisi non intende arrivare, ma che potrebbe servire a fare pressione nei negoziati.

Inoltre, nonostante l’accordo raggiunto con gli ispettori dell’Aiea nel settembre scorso, il governo iraniano continua a limitare l’accesso ad alcuni impianti nucleari. Nel frattempo gli Stati Uniti starebbero pensando a un “piano b” nel caso di fallimento dei negoziati, questo significa nell’adottare una linea più dura rispetto a quella tenuta finora.

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