Nel pieno della pandemia da Covid le prefetture italiane avevano inviato ai centri di accoglienza per i migranti richiedenti asilo (Cas e Siproimi) una circolare in cui si richiamava l’attenzione sulla necessità di «assicurare, nell’ambito delle strutture di accoglienza, e da parte degli ospiti ivi presenti, il puntuale adempimento delle misure di contenimento del contagio», raccomandando ai gestori di «far garantire il rispetto delle misure igienico-sanitarie, attraverso un’attenta opera di informazione dei migranti in accoglienza». Eppure, ad ascoltare le testimonianze degli operatori di alcuni centri racconte nel tempo, si percepisce tutta una altra realtà.

Isolamento impossibile

«A Firenze c’è stato un vero e proprio stillicidio, cominciato nell’agosto 2020 e che poi è continuato nel tempo», ha raccontato un’operatrice legale di un centro di accoglienza della provincia toscana, che ha scelto l’anonimato per tutelare la sua posizione lavorativa.

«Sono tanti i centri che sono stati posti in quarantena.  A Borgunto, ad esempio, si era sviluppato in un certo periodo un focolaio con 22 ospiti contagiati. E poi abbiamo avuto un focolaio in un grande centro a Calenzano, uno a Sesto Fiorentino, un altro ancora all’interno dell’ex Sprar di Firenze che è il più grande della Toscana con una capienza a pieno regime di 130 posti, oltre ai diversi cluster che si sono sviluppati all’interno degli appartamenti dell’accoglienza diffusa in tutta la provincia di Firenze», ha detto.

I contagi si sono diffusi soprattutto nei centri straordinari, che sono i più affollati, in cui è stato impossibile garantire l’isolamento. «In alcuni casi è accaduto che persone negative e positive hanno continuato a vivere insieme nella stessa stanza, in attesa del ricovero in ospedale o del trasferimento in alberghi sanitari», ha aggiunto.

Quanto alla sua situazione lavorativa, la donna ha raccontato di essersid dovuta rivolgersi a un sindacato: le era stato riferito dalla cooperativa per cui lavora di non potersi sottoporre al tampone molecolare, se non poteva dimostrare di essere stata a stretto contatto con una persona positiva. La sua qualifica era quella di lavoratore essenziale, e come tale assimilabile a quella di una dipendente di una Rsa per anziani.

Situazioni, queste, che tornano nei racconti di un’altra operatrice sociale impiegata in un centro di accoglienza straordinario per richiedenti asilo, che si trova in provincia di Firenze. «Già durante il periodo del lockdown, nel corso di una corrispondenza avuta con la locale prefettura, in cui ci era stato chiesto se fosse stato possibile garantire l’isolamento dei positivi in caso di contagi, avevamo fatto presente che non avevamo stanze singole e che i bagni erano in comune», ha spiegato.

La donna, che chiameremo Giulia (nome di fantasia), riferisce: «Nel centro dove ancora lavoro, altro che distanziamento! Dormono quindici persone in una stessa camerata. Esiste un bagno ogni dieci persone. La prefettura questo lo sa».

Confessa che si sono «sentiti presi in giro dalle stesse istituzioni che dovevano tutelare anche la nostra salute». Tra l’asl e la prefettura «sembra esserci stato un rimpallo di responsabilità, perché qui in Toscana gli alberghi sanitari erano tutti pieni e quindi non è stato per niente facile, in caso di contagio di un ospite, avere subito un trasferimento».

Grandi centri, tanti contagi

I problemi dei centri di accoglienza, relativi alla situazione pandemica, erano stati anticipati da un rapporto redatto da ActionAid e Open Polis. I ricercatori avevano lanciato l’allarme sull’organizzazione del sistema di accoglienza, sostenendo che durante l’emergenza Covid le grandi strutture per i migranti avrebbero fatto esplodere tutte le loro problematicità, da nord a sud.

Il report citava i casi del Cara di Pian del Lago a Caltanissetta, una struttura con una capienza di 456 posti, e dell’ex caserma Cavarzerani, in Friuli Venezia Giulia, «che è stata utilizzata sia come centro di accoglienza che come struttura per l’isolamento fiduciario da Covid». 

Da nord a sud, dunque, negli ultimi due anni, i grandi centri di accoglienza, generalmente sovraffollati, hanno accellerato il contagio. In un centro di Treviso, nello stesso momento, sono risultati positivi 233 migranti e undici operatori.

Si tratta dell’ex caserma Serena, dove il gestore era la stessa srl che vende i servizi immobiliari e l’energia elettrica, e che aveva messo le mani anche sull’hotspot di Lampedusa; quest’ultimo 

spesso, in particolare nella stagione estiva, supera i limiti di capienza , come del resto lo sono spesso gli altri centri di identificazione della Sicilia. 

Tuttavia, il nodo vero è che con i capitolati d’appalto introdotti dal decreto Sicurezza dall’allora ministro dell’Interno, Matto Salvini, i servizi sono stati ridotti all’osso, così come il personale qualificato.

Indicazioni disattese

I racconti resi in prima persona dai lavoratori e dalle lavoratrici su quello che è accaduto negli ultimi due anni di pandemia stridono fortemente con le indicazioni tecniche che sono state disposte dalle prefetture, e con le conclusioni contenute in un corposo documento la cui elaborazione, all’epoca, era stata chiesta dal ministero della Salute all’Inmp, l’ente del Servizio sanitario nazionale che promuove assistenza, ricerca e formazione per la salute delle persone migranti.

A leggere le decine di pagine del documento, si nota come siano state decine le raccomandazioni disattese dai gestori dei centri di accoglienza (e sulla cui applicazione le prefetture avrebbero dovuto vigilare). In una di queste disposizioni, in particolare, si rileva: «La persona contagiata è isolata in stanza singola, possibilmente con bagno in camera».

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