Dieci anni fa il parlamento approvava la legge 68/2015 introducendo nel codice penale una serie di nuovi reati volti a contrastare il crescente fenomeno delle ecomafie. Una svolta storica per il nostro paese che ha contribuito ad accertare quasi 7mila reati con oltre 12mila denunce dal 2015 ad oggi
«Trasi munnizza e n'iesci oro». La frase, intercettata e registrata, è stata pronunciata negli anni ‘80 da Vincenzo Virga, “uomo d’onore” trapanese responsabile dell’omicidio di Mauro Rostagno e della strage di Pizzolungo, la cui famiglia era specializzata nello smaltimento illecito di rifiuti. «Entra monnezza ed esce oro»: non esiste un manifesto migliore per descrivere quello che per anni è stato il business delle ecomafie nel nostro paese.
Tra scarsa attenzione e una legislazione insufficiente, per decenni i crimini ambientali hanno permesso a mafie e gruppi criminali di arricchirsi inquinando in modo metaforico il tessuto sociale ed economico di intere aree del paese e in modo letterale ampie porzioni di territorio con pesantissime ricadute in termini ambientali.
Un sistema proseguito quasi indisturbato fino al 19 maggio 2015, quando il parlamento ha approvato la legge 68/2015 introducendo nel codice penale una serie di nuovi reati contro l’ambiente. Un testo completo e organico che dimostra la capacità di cogliere le molteplici sfumature del fenomeno e il ruolo centrale svolto dalle consorterie mafiose, e da imprenditori complici o conniventi, nel business delle ecomafie.
I ritardi
Il termine ecomafie ha fatto la sua comparsa nel lessico italiano a metà degli anni ’90 quando l’associazione Legambiente iniziò a tracciare con i suoi rapporti annuali una panoramica degli illeciti ambientali commessi nel nostro paese. Nel corso degli anni l’espressione è entrata nel linguaggio comune per indicare «quel particolare settore della criminalità organizzata che gestisce attività illecite di dannoso impatto ambientale», come lo definisce la Treccani.
E il fatto che non esistesse una parola per indicare un fenomeno sempre più diffuso, rispecchia un’attenzione altrettanto giovane per questo tipo di fenomeno nata solamente negli ultimi vent’anni. A testimonianza della poca importanza che per anni è stata riconosciuta all’ambiente nel nostro Paese vi sono la quasi totale assenza di passaggi sul tema in Costituzione, dove fino al 2022 compariva solo un generico riferimento alla «tutela del paesaggio» all’art. 9, e la tardiva istituzione di un ministero apposito arrivata solo nel 1986.
Il primo, vero, tentativo di intervenire in modo organico sulla materia si ebbe solo nel 1997 con il cosiddetto “decreto Ronchi”. Uno spunto certo importante, che non risolse però i problemi esistenti. Pur prevedendo una serie di ipotesi delittuose, infatti, il decreto venne a suo tempo criticato dalla Commissione parlamentare sui rifiuti che sottolineò come presentasse «l’enunciazione di una regola cui seguono numerose eccezioni, subeccezioni ed eccezioni alle eccezioni, a volte disperse in più articoli.
Da ciò discendono inevitabilmente difficoltà di comprensione e, quindi, di concreta applicazione delle regole da parte degli operatori del settore». Negli anni si è provato a intervenire con interventi legislativi che non hanno mai realmente risolto il problema. Fino al 2015.
La legge
L’approvazione della legge 68/2015, infatti, ha rappresentato una enorme innovazione per l’ordinamento italiano. Se prima buona parte dei reati ambientali erano trattati come illeciti amministrativi, la nuova norma ha inserito per la prima volta nel codice penale una serie di delitti specificamente rivolti alla tutela dell’ambiente. Un cambiamento epocale, che ha portato il nostro paese a trattare l’ambiente non più come una vittima secondaria, ma come un bene giuridico primario da proteggere con fermezza.
Sono nati così una serie di nuovi reati, inseriti nel Titolo VI-bis del codice penale, il testo unico in materia di ambiente. La più grande novità riguarda l’introduzione dei delitti di «inquinamento ambientale» e «disastro ambientale». Il primo punta a colpire, con pene dai due ai sei anni di reclusione, chi «abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili» di aria, acqua, suolo, ecosistemi o biodiversità. Il secondo, invece, prevede che «chiunque abusivamente cagiona un disastro ambientale è punito con la reclusione da cinque a quindici anni» ed individua tre ipotesi in cui si sostanzia il disastro ambientale: l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema, l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali, l’offesa alla pubblica utilità in ragione della rilevanza del fatto.
Ma se questi risultano essere i due reati cardini attorno a cui ruota la normativa in tema ambientale, il legislatore ha fatto uno sforzo ulteriore prevedendo altre fattispecie delittuose: il traffico ed abbandono di materiale ad alta radioattività, l’impedimento del controllo, l’omessa bonifica a seguito di un’ordine del giudice o delle autorità.
E dimostrando di comprendere il ruolo delle organizzazioni mafiose nel business degli illeciti ambientali, il legislatore ha inserito nell’ordinamento specifiche aggravanti. Oltre a prevedere un aumento fino a un terzo della pena per chi compie questi reati con metodi e finalità tipiche delle organizzazioni criminali, viene introdotto anche lo strumento della confisca: «Nel caso di condanna è sempre ordinata – si legge all’art. 452-undecies – la confisca delle cose che costituiscono il prodotto o il profitto del reato o che servirono a commettere il reato, salvo che appartengano a persone estranee al reato».
Con la legge sugli ecoreati, dunque, il legislatore ha posto fine a decenni di immobilismo da cui erano derivati pericolosissimi spazi vuoti sfruttati per anni dalle ecomafie. Con l’introduzione dei nuovi reati italiani si è infatti cercato di porre fine ad una situazione divenuta sempre più favorevole per gli ecocriminali che per decenni hanno potuto sfruttare l’assenza di norme certe agendo di fatto in un contesto di pressoché totale impunità viste le difficoltà nell’individuare uno specifico reato da contestare.
cosa dicono i Dati
E dal 19 maggio 2015 ad oggi, qualcosa sembra essere cambiato. L’ultimo report di Legambiente permette di tracciare un quadro di come si è manifestato nel nostro paese il fenomeno delle ecomafie nell’ultimo decennio. I dati sono eloquenti: da giugno 2015 a dicembre 2024 sono stati effettuati 21.169 controlli, che hanno portato all'accertamento di 6.979 reati, con una media di un illecito penale ogni tre verifiche.
Le persone denunciate sono state 12.510, mentre 556 sono state arrestate, a conferma dell’intensità e dell’efficacia dell’attività di contrasto. Di particolare rilievo anche l’impatto economico: sono stati eseguiti 1.996 sequestri, per un valore complessivo pari a 1,155 miliardi di euro.
Un dato che sottolinea quanto le attività illecite incidano non solo sul piano penale, ma anche su quello economico, sottraendo risorse rilevanti alla collettività. L’insieme di questi risultati evidenzia la capillarità dei controlli e la determinazione nel contrasto alle violazioni, a tutela della legalità e dell’interesse pubblico.
Azioni capillari che, infatti, non hanno risparmiato nessuna regione. Al primo posto della triste classifica si trova la Campania, con 1.440 illeciti accertati e 382 sequestri in dieci anni, a conferma di come le consorterie mafiose siano i principali attori del fenomeno. Non sorprende, infatti, che oltre il 32 per cento dei reati accertati si siano registrati nelle regioni a tradizionale presenza mafiosa: Campania, Sicilia e Calabria.
Un dato che sale al 40,5 per cento se si considera tra le regioni a tradizionale presenza mafiosa anche la Puglia la cui storia criminale appare più complessa e frastagliata.
Sul podio della classifica degli illeciti, al secondo posto, sale anche la Sardegna dove in dieci anni sono stati accertati 726 reati. Al quarto posto, dopo la puglia, troviamo invece la Lombardia che negli ultimi anni è stata attraversata da una vera e propria emergenza per quanto riguarda il traffico e lo smaltimento illecito di rifiuti. In molti a Milano, ad esempio, ricordano ancora lo spaventoso rogo di via Chiasserini in cui nel 2018 bruciarono per giorni rifiuti accatastati senza regole all’interno di un impianto di smaltimento, con pesanti ripercussioni sulla qualità dell’aria nel capoluogo lombardo, resa irrespirabile dai fumi dell’incendio.
Prospettive
«Grazie a trent’anni di mobilitazione abbiamo ottenuto riforme fondamentali, ma ora è il momento di completare questa rivoluzione. Non ci sono più alibi: la Costituzione oggi tutela l’ambiente. È tempo di agire». Le parole del presidente di Legambiente, Stefano Ciafani, rendono l’idea di come il cammino iniziato dieci anni fa non sia ancora concluso. Così le associazioni promotrici della legge del 2015 hanno redatto un documento in cui si traccia una rotta precisa con cinque proposte al legislatore: recepire la direttiva Ue sulla tutela penale dell’ambiente, promuovere una convenzione internazionale per il contrasto ai crimini ambientali, inserire nel codice penale i delitti contro il patrimonio agroalimentare e contro gli animali, rafforzare la lotta all’abusivismo edilizio e accelerare la bonifica dei siti contaminati.
© Riproduzione riservata


