Mentre i maschietti giocano “con qualcosa” le femminucce giocano “a qualcosa”. A signore, per esempio, o a mamma e figlia. Giochi di ruolo che le preparano a vivere l’infanzia come delle piccole adulte con responsabilità che assomigliano a quelle delle loro madri. Riflettere su cosa insegniamo alle ragazze ripartendo dalle maestre Simone de Beauvoir ed Enchi Fumiko è una scelta necessaria
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Jenny è una giovane studentessa di liceo quando incontra David per la prima volta. L’uomo, di diversi anni più grande, ha una macchina costosa, un abito formale e un orologio prezioso, che spicca dalla manica della giacca mentre accosta alla fermata dell’autobus dove lei è ferma ad aspettare. Come per molte storie d’amore, anche questa comincia con una pioggia scrosciante: la ragazza ha i capelli bagnati, l’uniforme della scuola e un violoncello al fianco, che cerca in tutti i modi di proteggere. Siamo nel 1961, e se accettare un passaggio da uno sconosciuto non si addice a una signorina perbene, mettere in salvo il prezioso strumento musicale è una ragione sufficiente a infrangere le regole di buoncostume che Jenny conosce da sempre. E allora decide di farsi coraggio.
Comincia così An education, un film del 2009 di Lone Scherfig sceneggiato dallo scrittore Nick Hornby, che è anche un racconto di formazione sullo sfondo dell’Inghilterra degli anni Sessanta. Ricordo di averlo visto al cinema appena uscito: ero poco più grande della protagonista e, proprio come lei, anche io coltivavo il sogno di studiare letteratura all’università, guardare film francesi e passare ore nella mia stanza, con lo sguardo al soffitto, ascoltando musica dal giradischi.
Per molti anni, An education è comparso nella lista dei miei film preferiti. Del resto, si trattava di una bella storia di amore e disillusione dall’estetica impeccabile, che spesso raccontavo così: Jenny è una studentessa modello che, avendo fretta di diventare grande, si butta tra le braccia di imbroglione. Poco tempo fa, però, ho rivisto il film per la seconda volta, e ho scoperto che si trattava di una storia completamente diversa.
A colpirmi, con lo sguardo di oggi, sono stati i momenti che Jenny trascorre con la famiglia e i dialoghi con suo padre. A cosa ti serve studiare, farmi buttare i soldi a Oxford, dice il genitore, se hai già trovato un buon partito come David? A cosa ti serve andare ai concerti di musica classica, studiare arte, latino, portamento, se non a risultare interessante a un uomo che potrebbe poi farti sua moglie? Nella mia memoria era rimasta impressa la ribellione dell’adolescente, che infrange le regole per affermare se stessa in contrasto al modello di donna tradizionale che le veniva presentato; in realtà quello che succede è che Jenny a quel modello comincia ad aderire, e lo fa dal momento in cui rinuncia alle sue ambizioni da studentessa per stare con David.
La preparazione
Che cosa è stata per secoli l’educazione delle bambine e delle ragazze se non una lunga preparazione a diventare le compagne perfette per il proprio uomo? La cura di sé, gli esercizi di portamento, le lezioni di economia domestica e danza, gli studi di letteratura. Ancora nel XX secolo – per molte donne che hanno vissuto il privilegio di accedere all’istruzione superiore – gli anni della formazione sono stati un piacevole inganno: quello di poter nutrire un sogno, un’ambizione, alla quale invece avrebbero dovuto rinunciare per meglio combaciare con l’immagine di sé che la società aveva scelto per loro.
«La cultura alla quale apparteniamo, come ogni altra cultura, si serve di tutti i mezzi a sua disposizione per ottenere dagli individui dei due sessi il comportamento più adeguato ai valori che le preme conservare e trasmettere.» Sono parole che Elena Gianini Belotti scrive all’inizio del suo saggio rivoluzionario, Dalla parte delle bambine, pubblicato nel 1973. «La piccola che a quattro anni contempla la sua immagine allo specchio è già condizionata a questa contemplazione dai quattro anni precedenti, più nove mesi in cui è stata attesa e durante i quali si approntavano gli strumenti atti a fare di lei una femmina il più possibile simile a tutte le altre.» Ma cos’è questo ideale di femminilità, che nonostante quattro ondate di pensiero e lotte femministe, continua a insinuarsi subdolamente nella nostra cultura?
La trappola
Simone de Beauvoir non aveva esitato a definirlo una trappola. E questo è evidente anche dai giochi che vengono proposti alle bambine fin dai primi anni di età. Mentre i maschietti giocano “con qualcosa”, le femminucce giocano “a qualcosa”: a signore, per esempio, o a mamma e figlia; giochi di ruolo che le prepara a vivere l’infanzia come delle piccole adulte con delle responsabilità che assomigliano a quelle delle loro madri. L’educazione impartita per secoli alle bambine e alle adolescenti, aveva come fine quello di formare soggetti docili, delicati e sottomessi all’autorità, da quella degli insegnanti a quella paterna, fino a quella del futuro marito. L’eccellenza delle bambine in ambito scolastico, rispetto ai loro compagni maschi spesso più vivaci, nasce proprio dalle aspettative sociali su entrambi i gruppi. Una bambina energica o poco ordinata sarà meno giustificata dalla maestra per il suo rendimento e per la sua condotta – sarà trattata come un’anomalia da correggere – mentre per un ragazzino si chiuderà un occhio, magari lo si correggerà ma giustificando il suo estro con l’età, con un boys will be boys, come si dice troppo spesso quando uno di loro esagera in eccessi di vitalità o in dinamiche di gruppo che scaturiscono anche in atti di una certa violenza.
Con Il secondo sesso – uno dei testi fondamentali del femminismo di seconda ondata – Beauvoir rifletteva proprio su quanto la disparità sociale tra uomini e donne abbia i suoi fondamenti proprio nell’educazione che viene loro impartita fin da piccolissimi. «Per la giovanetta - scrive la filosofa francese – esiste un conflitto tra la condizione umana e la sua condizione di donna.»
A partire dalla pubertà, le ragazze perdono terreno in campo intellettuale e artistico. Questo succede perché “l’adolescente è costretta a unire al peso del lavoro professionale anche quello che implica la femminilità e la seduzione.” Quando una donna è ambiziosa e realizzata, è come se agli occhi dell’uomo risultasse automaticamente meno attraente perché meno femminile. Ed essere femminili “significa mostrarsi impotenti, passive, frivole, docili.” Per secoli, l’educazione familiare e scolastica delle fanciulle è stata orientata secondo questi principi. Prenderne coscienza è allora il primo, fondamentale passo verso il cambiamento.
Anche il rapporto che ogni donna ha sviluppato con il proprio corpo e con la propria sessualità ha molto a che fare con l’educazione. Nella mitologia urbana ci vengono da sempre restituiti stereotipi senza vie di mezzo: e benché le categorie di madre o prostituta, moglie o amante, sembrino configurarsi su due poli opposti di uno spettro, a vederle da vicino è quasi immediato notare come anche questi ruoli ruotino intorno all’accudimento o al soddisfacimento del piacere dell’uomo, quello che – stando a una famosa pubblicità degli anni Novanta – è sempre il soggetto che non deve chiedere mai. Le ragazze hanno interiorizzato questi concetti e ne hanno fatto inconsapevolmente la propria esperienza di educazione sessuale, in mancanza d’altro. Nessun accenno al desiderio, nessun accenno al proprio piacere: il male gaze ha vissuto dentro la testa delle donne mettendo radici profonde, fino a quando negli anni Settanta non hanno cominciato a confrontarsi tra loro e a riflettere sulla propria condizione.
Due maestre
Ma che cos’è un salotto letterario se non uno spazio in cui, a partire dai libri, si può creare occasione di confronto? Dedicare la seconda edizione del Miu Miu Literary Club sotto la direzione di Miuccia Prada al tema dell’educazione delle donne è oggi come mai una scelta necessaria. Farlo poi a partire dall’opera di due grandi maestre come Simone de Beauvoir e Fumiko Enchi – vissute entrambe negli anni Cinquanta del Novecento – è ulteriormente significativo. Da qualche tempo ormai i nostri algoritmi ci ripropongono contenuti apparentemente innocui di influencer all’interno delle loro cucine mentre si dedicano alla preparazione di una torta, suggeriscono metodi efficaci per la pulizia della casa oppure distribuiscono consigli su come conquistare un uomo mostrandosi remissive. Le trad wife (termine traducibile come “mogli tradizionali”) sono un fenomeno sviluppato negli ultimi anni in cui giovani donne abbracciano con entusiasmo un ritorno all’estetica degli anni Cinquanta e ai ruoli di genere ad essa connessi.
Betty Friedan – nel saggio La mistica della femminilità pubblicato nel 1963 – aveva attribuito problemi come depressione e abuso di alcol nelle donne proprio alla riduzione della loro vita ai ruoli domestici, denunciando per la prima volta in chiave femminista lo stereotipo della casalinga americana negli anni del boom economico. Prima di allora nessuno aveva provato a raccontare quel senso di frustrazione, quella insoddisfazione che prendeva le donne di quegli anni mentre rifacevano i letti nelle proprie case, mentre preparavano le merende per i loro bambini, mentre facevano shopping al supermercato fermandosi poi esauste a chiedersi se la vita fosse tutta lì. O meglio, non lo avevano ancora fatto le attiviste, ma scrittrici come Simone de Beauvoir e Fumiko Enchi ne erano già pienamente consapevoli, e avevano provato a rappresentare la trappola della femminilità all’interno delle loro opere di finzione.
Le inseparabili
Le inseparabili di Simone de Beauvoir, scritto nel 1954 ma pubblicato solo nel 2020, Ponte alle Grazie, è un libro intimo e personale che ha al centro la storia di un’amicizia, ma è anche una storia sulla resistenza delle ragazze. Resistenza a piegarsi alle regole della società borghese che vuole soffocare il loro estro fino a farlo rientrare nella forma accettata socialmente, quella dell’ideale femminile del tempo. L’amicizia diventa allora una società segreta stipulata tra due persone, nell’ambito della quale idee alternative e futuri possibili vengono elaborati e si cominciano a desiderare senza fare i conti con gli ostacoli del mondo esterno. Quando Sylvie (alter ego di Simone) incontra tra i banchi di scuola la giovane Andrée, riconosce immediatamente in lei non solo una pari, ma un nuovo modello a cui aspirare. Le maestre non la intimidiscono, anzi, le affronta con sicurezza; e le loro opinioni non le interessano, perché sono mutilate da cosa è opportuno dire o meno per una donna di quel tempo. Insieme le bambine crescono parlando di politica, storia e filosofia provvedendo da sole a esercitare quel pensiero critico che le madri e insegnanti cercavano di tenere a bada. Sylvie riconosce subito l’eccezionalità dell’amica. Ma la radice di eccezionalità è per l’appunto eccezione: ci vorranno ancora molti anni prima che le donne siano educate a coltivare le proprie capacità intellettuali senza essere guardate come anomalie.
Onnazaka
Con Onnazaka – il sentiero nell’ombra, Safarà, Fumiko Enchi sposta invece l’attenzione sulla sessualità delle donne. Pubblicato nel 1956, il romanzo racconta di Tomo, moglie di un funzionario spregiudicato nel Giappone di fine Ottocento, che viene investita dal marito del compito di scegliere per lui una giovane concubina. Quello che risulta più straziante di questo romanzo è la completa sottomissione della protagonista al volere dell’uomo, intesa come unica forma di relazione che ancora può tenerla legata a lui. Accanto a questo, si aggiunge una forte interiorizzazione dello sguardo maschile sui corpi delle donne anche verso se stesse. In questo romanzo Enchi denuncia la gabbia dell’istituzione matrimoniale di fine XIX secolo, ma facendolo parla inevitabilmente anche della condizione delle donne del proprio tempo, così come aveva fatto Simone de Beauvoir a partire dal racconto di un’amicizia.
Viviamo in un tempo che si sta pericolosamente riavvolgendo: il richiamo all’estetica e alla femminilità degli anni Cinquanta – con conseguente promozione della figura della “moglie tradizionale” da parte di alcune content creators contemporanee – è il segno che certe conquiste del femminismo possono essere sottratte in qualsiasi momento. Confrontarsi su questi temi oggi, anche grazie allo strumento della letteratura, ci aiuta a prendere atto dei condizionamenti subiti in quanto donne a partire dal tipo di educazione ricevuta. Ma soprattutto ci può aiutare a non infliggerli a nostra volta.
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