È il nuovo trend in termini di fast food: mangiare velocemente non vuol dire automaticamente mangiare male. Sono il menù e le materie prime, e non il luogo, a fare la differenza.

Tanti imprenditori ci stanno investendo in maniera consistente. Tra loro, anche il cantante Sfera Ebbasta, il calciatore Andrea Petagna e lo stilista Marcelo Burlon. 

I nutrizionisti approvano: è un bisogno che parte dai consumatori, che negli ultimi anni sono diventati più consapevoli. E in questo modo, si diffonde anche tra i giovani il valore del mangiare bene.

Salmone agli agrumi, pomodori confit, rughetta, mandorle e yogurt all’erba cipollina. E ancora edamame all’arancia e persino ostriche de Claire. Non sono i piatti serviti da un raffinato ristorante low-carb o keto, ma voci prese da alcuni menù di catene fast food. Certo, catene un po’ diverse da quelle più conosciute, ma che si stanno diffondendo a velocità rapidissima in tutta Italia.

Rivoluzione

È un trend che offre anche discrete possibilità di business e che comincia ad attirare vip con voglia di investire. Il cantante Sfera Ebbasta, il calciatore Andrea Petagna e lo stilista Marcelo Burlon hanno aperto Healthy Color, una serie di ristoranti fast food dove i nuggets sono 100 per cento vegetali, si frigge tutto ad aria, l’edamame è una delle principali fonti di proteine e gli hamburger vegani hanno soppiantato quelli di carne. Già dal nome della catena il messaggio è chiaro: mangiare salutista è colorato e divertente, non più grigio e noioso come si pensava in passato. Risultato, i nachos di barbabietole sono più fighi delle patatine fritte.

Un’ulteriore rivoluzione nell’universo fast food è quella di Pescaria, catena interamente basata su menù di pesce, fondata nel 2015 a Polignano, in provincia di Bari, dal pescivendolo Bartolo L’abbate e dal professionista del marketing Domingo Iudice. Plastic free dal 2019, Pescaria è un fast food che ha rotto il tabù della differenziazione. Mentre le catene tradizionali vendono sempre gli stessi cibi in ogni angolo del pianeta, i menù di Pescaria hanno una parte fissa e una parte che cambia a seconda della stagione e della collocazione geografica del singolo ristorante.

Come nei migliori locali, ogni sei mesi arriva sulla carta qualcosa di nuovo e a Milano trovi piatti che non trovi a Napoli, e viceversa. In alcune città c’è anche la cucina, che serve primi ovviamente di pesce, da riso patate e cozze alla parmigiana di mare. Quello che resta uguale da Trento a Roma è il pesce, che viene tutto da Polignano. La catena è riuscita a far passare il fast food da una fase global a una cosiddetta glocal, dove piatti locali, in questo caso i frutti di mare crudi o il baccalà alla barese, si diffondono in altri luoghi senza snaturarsi; anzi, arricchendo la cultura del cibo dei curiosi che si avventurano oltre le colonne d’Ercole del pranzo di ogni giorno.

Questione d’influenza

Pescaria è innovativo anche nelle campagne social, tutte basate su quello che i sociologi della comunicazione del cibo definiscono food porn: primissimi piani di cibi sovraccarichi di colori, dalle forme sinuose e dall’aspetto invitante. Solo che qui a sedurre l’utente di TikTok o di Facebook non sono salsicce che grondano grasso o fritture bisunte, ma tataki di tonno, panini senza salse e tanto pesce azzurro. Antonio Pedote, responsabile del marketing Pescaria, spiega che questa strategia ha allargato il pubblico del fast food, che adesso comprende anche i sessantenni (raggiunti su Facebook) e i puristi che una volta alzavano il sopracciglio alla sola vista di un hamburger. Insomma, i nonni che una volta al McDonald’s erano costretti al digiuno, mentre i nipoti divoravano di tutto, adesso possono anche loro mangiare senza paura.

Queste nuove realtà hanno influenzato anche le catene tradizionali, che già da tempo avevano introdotto qualcosa di salutare nei loro menù (si pensi alle insalate nei Mc Donald’s) ma che adesso, minacciate dal nuovo trend, diventano sempre più light. Questo ha portato a una nuova fase del rapporto tra i fast food e i loro più acerrimi nemici, i dietologi. Negli Stati Uniti alcuni nutrizionisti sono venuti a patti con il vecchio nemico e hanno stilato un elenco di piatti che si trovano nei menu dei principali fast food di tutto il mondo e che non sono più considerati armi di distruzione del fegato; certo, da mangiare non più di una volta alla settimana, con parsimonia e magari alleggerendo altri pasti. Tra gli altri, l’Egg McMuffin di McDonald’s o il Chicken and Hummus Protein Box di Starbuck’s.

L’approvazione dei nutrizionisti

Nel nostro paese, sull’onda di questa riappacificazione, è stato concepito Grammo, che si autodefinisce “il primo fast food consigliato dai nutrizionisti italiani” e il cui slogan è: «Mangiare sano non è un lusso, ma un diritto». E in effetti Grammo è fino ad oggi l’ultimo stadio del processo di purificazione del fast food. A leggere il menù sembra di essere in un ristorante macrobiotico, con polpo cotto a bassa temperatura, wakame e mayo agli agrumi.

Il biologo nutrizionista Giuliano Parpaglioni, che opera a Brescia e provincia e che come i colleghi americani guarda con attenzione al fenomeno dei fast food salutari, è convinto che queste catene stiano proponendo al consumatore medio qualcosa di veramente nuovo. «Vedo nei menù poco formaggio e molto pesce e legumi. La qualità c’è, e questo giustifica anche qualche euro in più nel conto. Ma attenzione alla quantità. Se in un piatto metto per esempio un intero avocado, frutto estremamente calorico, addio mangiare sano. Inoltre, sono posti dove andare due o tre volte alla settimana, non di più. Meglio che mangiare pizza ogni giorno o andare nei fast food tradizionali. Possiamo tranquillamente definirli un alternativa interessante».

Domenicantonio Galatà, biologo nutrizionista e presidente dell’Associazione Italiana Nutrizionisti in Cucina, è ugualmente dalla parte dei nuovi fast food ma con qualche riserva in più. Mangiare bene, secondo lui, è un percorso che si basa su tre step: «Il primo è la qualità della materia prima», dice, «è nei fast food salutisti questo c’è sicuramente. Il secondo è il come si cucinano questi piatti, e qui abbiamo ancora della strada da fare, anche se il problema è generale, visto che in Italia formiamo i cuochi come si faceva secoli fa, in maniera poco scientifica; il terzo step è il bilanciamento tra carboidrati (che dovrebbero costituire il 50 per cento della nostra alimentazione), i grassi (30 per cento), e le proteine (20 per cento); non sono sicuro che queste catene rispettino sempre queste proporzioni». 

Ma fast non è healthy 

Un altro punto fondamentale è la durata del pasto. Spesso si dice che mangiare velocemente sia comunque un problema, e al fast food certo non ci si siede come all’osteria. Su questo il dott. Parpaglioni è possibilista: «Più che la velocità, fa male la mancanza di attenzione. Un paio di giorni alla settimana, a pranzo posso anche mangiare velocemente, basta che ogni giorno, dovunque io mangi, curi la mia alimentazione, prima di tutto la varietà. Anche un cibo salutare come il salmone, se preso troppo spesso, può creare degli squilibri. Bisogna variare, assumendo proteine un giorno dal salmone un giorno da altri alimenti, e questi ristoranti lo consentono. La velocità in sé non è un problema». Anche per chi non è più giovanissimo. «Un sessantenne può certamente mangiare in queste catene un paio di volte a settimana senza problemi, facendo per il resto della giornata una vita sana. Se pranzi al fast food perché il lavoro non ti dà tempo, sei stressato, non dormi, etc., allora è un altro discorso», conclude il dott. Parpaglioni.

Insomma, i fast food salutari sembrano convincere anche i nutrizionisti italiani. Dice ancora il dott. Galatà: «Vip o no, dietro queste catene salutiste c’è gente che sta investendo tanti soldi in un valore importante, mangiare bene. Se lo fanno, vuol dire che il consumatore lo richiede, e questo significa che il pubblico è maturato, altro segnale positivo. Credo che nei prossimi anni tutti insieme, formatori, nutrizionisti, investitori, media e ristoranti, dovremmo collaborare per sostenere questo prezioso trend», conclude Parpaglioni. 

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