L’immagine che ha chiuso i Mondiali restituisce il senso dell’operazione Qatar 2022. Un’operazione di potenza politica, che nessuno ha provato a mascherare da qualcos’altro.

Ma per lasciare il segno, in profondità, servivano dei simboli. In tal senso l’immagine di Lionel Messi che alza al cielo la Coppa del mondo indossando un mantello nero tipicamente usato in Qatar, è servita a chiudere il cerchio dopo un pomeriggio in cui la folle bellezza del calcio aveva messo fra parentesi le polemiche degli ultimi mesi.

Quella tunica si chiama bisht e nella simbologia araba è un capo di abbigliamento che designa una persona eccellente, portatrice di un senso di regalità. Al capitano della nazionale argentina è stata messa addosso dall’emiro qatariota in persona, Tamim bin Hamad al Thani.

Un rito di vestizione pressoché imposta, avvenuta sotto gli occhi di un presidente della Fifa, Gianni Infantino, che accanto all’emiro ricordava il sir Biss del Robin Hood versione Walt Disney.

Aspetto cerimoniale potentissimo, effetto centrato in pieno.

Elementi iconici

A partire da quel gesto si è innescato un meccanismo scenico dove non c’era un elemento che non fosse iconico.

A partire dallo stadio di Lusail dove si è giocata la finale e che il termine “iconic” lo porta nel nome, per continuare col momento che è iconico per eccellenza poiché si materializza una volta ogni quattro anni, e chiudere col calciatore più iconico del Ventunesimo secolo colto nel suo momento di maggior gloria.

Una scena mai vista in un campionato del mondo, dove la maglia è come la bandiera nazionale e la vittoria della coppa significa piazzare quella bandiera per almeno un quadriennio sul pennone più alto e visibile da ogni angolo del globo. E invece, nel momento di solennizzare la conquista, la maglia-bandiera è stata trasformata in un corredo secondario, come fosse abbigliamento da fitness indossato sotto l’abbigliamento da gara.

La patria e la bottega

Un istante dopo che la scena è stata trasmessa in mondovisione si è accesa la polemica nei confronti di Messi, che nel giorno in cui approdava al trionfo calcistico lungamente atteso si è visto rovinare la festa.

Dando retta a una vasta quota dei commenti circolati nelle ore successive, il capitano dell’Albiceleste avrebbe dovuto rifiutarsi di indossare il bisht, anziché rimanere timido e passivo. Opinione rispettabile al pari di quelle opposte, ma alla quale bisogna opporre un interrogativo: davvero Messi avrebbe potuto opporsi al gesto dell’emiro?

E nella risposta c’è il senso più profondo del potere qatariota: magari avrebbe anche potuto opporsi, ma andando contro il volere di un signore che oltre a essere il sovrano di un emirato è anche il suo datore di lavoro.

Bisognerebbe non dimenticare che lo stipendio di Messi come calciatore del Paris Saint-Germain (30 milioni di euro netti a stagione, che in caso di rinnovi fino al 2024 possono arrivare a 40 milioni di euro nell’ultima stagione per un totale di 110 milioni in quattro stagioni) viene pagato dal fondo Qatar Sports Investments (QSI), che è proprietario del club parigino e a sua volta viene finanziato dalla Qatar Investments Authority, cioè il fondo sovrano del Qatar, dunque cassaforte dell’emiro.

Magari in un istante il capitano dell’Argentina ha realizzato che prima di essere il leader di una nazione calcistica tripudiante è un dipendente di lusso di un’azienda privata, ma finanziata da un fondo sovrano. 

E che una soluzione di compromesso è sempre meglio della rottura col vero datore di lavoro. Né tanto diversamente sarebbe andata se a vincere la coppa fossero stati i francesi e in quel caso il calciatore simbolo (sia pur non da capitano) da vestire fosse stato Kylian Mbappè, altro dipendente dell’emiro via Psg e Qsi con stipendio lordo da 636 milioni di euro concordato per tre stagioni.

Avremmo preteso anche dal fuoriclasse del nuovo decennio l’eroico gesto di mettere l’un contro l’altra armate la patria e la bottega, pur di soddisfare un nostro senso d’eroismo per procura?

Politica di pura potenza

La verità è che dopo Qatar 2022 non saremo più gli stessi. Non lo saremo certamente nel calcio, che da questa edizione dei campionati del mondo rimane segnato nel profondo e scopre di non aver mai potuto pretendere di porsi fuori dalla politica perché è esso stesso un fenomeno eminentemente politico.

Ma non lo saremo nemmeno in tutto ciò che intorno al calcio si muove e che continuiamo a trattare come se fosse altro.

Sono state dette molte cose durante queste settimane, a proposito del curioso rapporto fra il Qatar come paese organizzatore di una fase finale dei Mondiali di calcio e il Qatar che come potenza geopolitica nemmeno più soltanto emergente (ma anzi pienamente radicata) maneggia a proprio piacimento i confini del lecito.

E fra le tante cose dibattute vi è stato l’uso  di concetti come soft power e sport washing. A proposito del primo ci siamo espressi a pochi giorni dall’inaugurazione della manifestazione, sostenendo che l’uso del concetto di soft power nel caso dei Mondiali qatarioti è quanto di più maldestro si possa fare.

E a questo punto possiamo aggiungere che nemmeno il concetto di sport washing è appropriato. Perché anzi il Mondiale del Qatar è stato il suo esatto contrario, un’operazione di sport dirtying di cui la sovrapposizione del bisht alla maglia albiceleste è un simbolo potente.

I mondiali del 2022 non sono affatto serviti al Qatar per ripulirsi l’immagine attraverso il potere sbiancante dello sport. All’opposto, sono stati l’ennesimo mezzo per dimostrare che il potere assoluto consiste nel piegare, addomesticare, e al limite sporcare qualcosa che altri si ostinano a elaborare come un incontaminabile simbolo di purezza.

Il Qatar si è preso il Mondiale in applicazione di un atto di forza – e quale maggior atto di forza che quello di portare una manifestazione di portata globale, durante l’inverno europeo, in uno stato dal territorio esteso quanto quello di una media regione italiana? – e da lì in poi ha continuato in applicazione di questa logica, insistendo a rivendicare le proprie posizioni pre moderne sui diritti civili, a negare le cifre e le responsabilità a proposito dell’immane strage dei lavoratori stranieri morti nei cantieri dei mondiali, persino a stoppare le dirette televisive dalle strade di Doha o a rimangiarsi le scarne aperture in materia di commercializzazione degli alcolici (ciò che ha messo in difficoltà la Fifa con uno dei suoi sponsor storici, Budweiser).

Per il Qatar tutto ciò non è mai stato un problema. Loro comprano, pagano cifre che ammazzano il mercato e stanno lì a chiedersi cosa siano questi strani concetti come “concorrenza”e “corruzione” che da questa parte del mondo insistiamo a rivendicare.

Leader deboli 

La separazione fra il Qatar del calcio e il Qatar della corruzione (con la seconda versione emersa impetuosamente a Mondiali in corso) non è stata fatta soltanto dai media qatarioti, che sin dall’inizio hanno sigillato fuori dalla bolla narrativa domestica le notizie su tutto ciò che in questi giorni accade in Europa.

Una scissione a caldo avviene anche sui media di molti paesi europei e fra i leader politici dell’Unione intaccata dall’assalto del denaro proveniente dall’emirato.

Si fa largo una crescente sensazione di desistenza, di esaurimento delle riserve d’inflessibilità, di cedimento al ribasso di fronte alla logica del reiterato fatto compiuto. E in questo senso, dato che ancora una volta i simboli sono importanti quanto le dimostrazioni di potenza, la presenza di Emmanuel Macron all’Iconic Stadium di Lusail in pieno Qatargate è stato un altro segnale devastante.

Che coincide col momento in cui, dopo avere taciuto per settimane sulle critiche riguardo al mancato rispetto dei diritti e poi alle presunte corruzioni in sede di Europarlamento su cui la magistratura belga ha sollevato il velo, dall’emirato giunge infine una minaccia in stile putiniano: piantatela di scocciare ché altrimenti vi tagliamo il gas.

Che ciò avvenga il giorno dopo la conclusione dei Mondiali è emblematico. Come quattro anni fa in Russia, anche stavolta il Mondiale certifica la riuscita di un’operazione tutta giocata sulla politica di potenza e certifica un diritto all’arroganza globale. Sciocco chi non aveva ancora compreso che oggi, nello scacchiere delle relazioni internazionali, il calcio significa soprattutto questo.

© Riproduzione riservata