Esce il 25 aprile con Donzelli editrice, “La memoria dimezzata”, analisi storica e antropologica dei crimini di guerra commessi nei confronti della popolazione di origine slovena, una pagina rimossa della storia italiana
«Mussolini non ha mai ammazzato nessuno, Mussolini mandava la gente a fare vacanza al confino», così disse a due giornalisti del settimanale britannico The Spectator l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Era il 19 settembre del 2003 e in quell’intervista in due parti che fece il giro del mondo si trova tutto il campionario ideologico della destra italiana saldamente al potere: l’attacco alla libera stampa e all’indipendenza dei magistrati, ma soprattutto la sottovalutazione e la negazione dei crimini fascisti commessi oltre l’italico confine.
Si tratta di una rimozione che viene da lontano, dal fatto che l’Italia del dopoguerra riuscì a evitare la “sua Norimberga” grazie all’abilità diplomatica e a condizioni delle relazioni internazionali favorevoli, sommate a tutta una serie di fattori di politica interna.
Così, nessun cittadino italiano accusato di aver commesso crimini di guerra fuori dai confini nazionali, in Albania, Grecia, Etiopia, Jugoslavia, è stato mai processato e, quindi, condannato per le atrocità commesse. Caddero nel vuoto già nel febbraio del 1945 le richieste di consegna dei criminali di guerra da parte degli Alleati, ma non ebbero alcun effetto negli anni successivi anche le istanze di stati come l’Albania e la Jugoslavia per l’estradizione di centinaia di esponenti del regime fascista.
L’innocenza
Nel giugno del 1950 il governo italiano usò come grimaldello l’articolo 165 del codice penale militare, che prevedeva la «reciprocità» tra gli stati nella punizione dei crimini di guerra, per congelare tutti i procedimenti giudiziari all’estero, usando la motivazione che in caso contrario proprio la Jugoslavia avrebbe dovuto, invece, processare i responsabili delle violenze commesse nei confronti della popolazione giuliano-dalmata da parte dei partigiani slavi (le foibe).
La non punibilità dei criminali di guerra italiani, dunque, coincise con la scoperta delle prove dei crimini subiti dagli stessi italiani che abitavano al confine tra i due paesi dopo l’8 settembre 1943.
Senza giustizia quindi rimasero molte donne, migliaia di bambini, persone anziane e con disabilità che erano stati tutti rinchiusi nei “cimiteri dei vivi”, come alcuni testimoni definirono alcuni campi italiani, dove furono deportate persone dalla provincia di Lubiana, dalla regione giuliana e da altre parti della Jugoslavia. Non solo. Sebbene i campi di internamento fascisti di Arbe, Gonars, Monigo, Visco, ma anche alcune carceri come Alessandria, Lubiana, Trieste, Venezia, Milano, sono divenute un patrimonio collettivo di conoscenza grazie al lavoro di alcuni storici, tuttavia a differenza dei campi nazisti questi luoghi non sono rimasti impressi a pieno nella memoria collettiva europea sulla seconda guerra mondiale.
L’impunità
I motivi hanno tutti a che fare con il mito del fascismo come “male minore” che è stato costruito da una parte della classe dirigente italiana nell’immediato dopoguerra, a cui concorsero anche autorevoli esponenti del mondo della cultura. «L’innocenza degli italiani» e la loro sincera opposizione al fascismo venne pubblicamente difesa dal 1944 da quello che allora era uno degli intellettuali più eminenti, Benedetto Croce.
È anche a causa di questo clima di rimozione che, per esempio, un gerarca come Mario Roatta, comandante della seconda armata italiana di stanza in Slovenia e in Croazia che avrebbe dovuto essere processato non solo per i crimini commessi sul suolo jugoslavo, ma anche per l’assassinio dei fratelli Rosselli, rimase impunito, assolto dalla Corte di Cassazione nel 1948 proprio per quest’ultimo delitto.
Roatta, accusato dalle autorità jugoslave dell’uccisione di mille ostaggi e duecento partigiani in Slovenia, e di aver internato 35mila persone ad Arbe e in altri campi italiani, ebbe lo stesso destino di impunità riservato a Vittorio Ambrosi, capo del comando supremo delle forze armate e responsabile di molti crimini di commessi dall’esercito italiano sul suolo jugoslavo, e mai processato.
L’internamento
Per questo è importante leggere “La memoria dimezzata” degli storici Marta Verginella, Oto Luthar, Urška Strl, imponente lavoro di ricostruzione che è in libreria il 25 aprile grazie a Donzelli editrice. «Crediamo che le donne e gli uomini internati nei campi italiani meritino un’ampia trattazione storica. Anche perché i loro destini sono stati del tutto trascurati dalla storiografia fino all’inizio del XXI secolo e pochi sono gli studi che si basano sulle testimonianze degli internati e delle internate nei campi italiani», scrivono gli autori.
E ancora, raccontano: «Abbiamo deciso di dare la parola alla popolazione internata di entrambi i sessi, ai protagonisti di quella vicenda: le donne e gli uomini che erano ancora in vita al momento della nostra ricerca (2012-2015), reduci dalle prigioni, dai campi di internamento e di concentramento fascisti».
L’internamento era tra i provvedimenti repressivi più severi adottati dalle autorità italiane dopo l’invasione della Jugoslavia, sia nella provincia di Lubiana che nelle terre della Venezia Giulia. Si trattava di una misura disposta dalle autorità italiane come mezzo di intimidazione e ricatto dei civili. E fu così che furono rinchiusi nei campi o spediti nelle carceri e al confino, prevalentemente, studenti liceali e universitari, disoccupati, senzatetto, ex combattenti, donne e bambini.
Da un centro di raccolta all’altro venivano fatti spostare a piedi o sui camion, mentre i futuri detenuti del campo di Arbe potevano anche essere trasferiti in nave. «Sulla nave che proseguiva lungo l’Adriatico, attraccammo ad Arbe. Era già buio pesto la sera. Lì ci misero in fila e ci spedirono direttamente al lager, il lager di Arbe. Siamo arrivati tutti coperti di polvere», ha ricostruito un testimone. E tanti altri hanno riferito agli autori del destino a cui andarono incontro le donne e i bambini, un destino segnato dalla mancanza di cibo e di acqua e da condizioni igieniche intollerabili. Altro che vacanza.
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