Sul sito di Nature, la rivista scientifica più importante del pianeta, il 2 febbraio è stato pubblicato un articolo sul Covid-19 destinato a far discutere ma fondamentale. Lo studio, condotto da un gruppo di scienziati dell’Imperial College di Londra guidati da Christopher Chiu, si intitola: “Sicurezza, tollerabilità e cinetiche virali durante una sfida umana col Sars-CoV-2”. In cosa consiste?
Scrivono gli autori: «Per stabilire un nuovo modello di sfida umana col Sars-CoV-2, abbiamo inoculato una dose di Sars-CoV-2 pari alla TCID50 in 36 volontari di età compresa fra i 18 e i 29 anni, non infettati precedentemente dal virus e non vaccinati». 

Condurre una «sfida umana col virus» significa che gli scienziati hanno preso 36 volontari giovani e sani – ognuno dei quali ha ricevuto in premio 4.565 sterline per la sua partecipazione all’esperimento, che comportava almeno 15 giorni di totale isolamento sotto osservazione medica al Royal Free Hospital di Londra – e a ciascuno di loro hanno deliberatamente inoculato per via intranasale una quantità piccola, seppur pericolosa, di Sars-CoV-2 del ceppo originario del 2020.

In realtà, gli studiosi hanno inoculato ai primi tre partecipanti una minuscola dose di virus, pari a quella contenuta in una sola gocciolina respiratoria, per assicurarsi che non sviluppassero una malattia grave.

Visto che non avevano sviluppato sintomi, gli scienziati hanno poi inoculato agli altri volontari una quantità di virus di poco superiore, pari al TCID50, cioè alla quantità di virus necessaria per distruggere il 50 per cento delle cellule in coltura infettate dal virus. Due pazienti sono stati subito scartati perché avevano subito sviluppato anticorpi, frutto di una infezione precedente non rilevata. Cosa hanno scoperto gli scienziati?

I risultati

«Diciotto volontari (il 53 per cento) sono stati infettati, sviluppando un carico virale che è aumentato rapidamente e ha raggiunto il picco circa 5 giorni dopo l’inoculazione. Il virus è stato prima rilevato a livello della gola ma poi è cresciuto significativamente raggiungendo più alti livelli all’interno del naso. Copie vitali del virus sono state rilevate all’interno del naso in media fino a circa 10 giorni dopo l’inoculazione. Non si sono verificati eventi avversi. Sintomi da lievi o moderati sono stati osservati in sedici degli individui infetti (l’89 per cento), a partire da 2-4 giorni dopo l’inoculazione. Anosmia o disosmia (cioè mancanza o disturbo del senso dell’olfatto) si sono sviluppate in dodici dei partecipanti (il 67 per cento). Non è stata notata una correlazione quantitativa tra il carico virale e i sintomi rilevati, anzi si sono osservate alte cariche virale persino in individui asintomatici, cui ha fatto seguito lo sviluppo di anticorpi neutralizzanti diretti contro la proteina Spike del virus. I test a tampone rapido erano in grado di rilevare con grande efficacia il virus, e i modelli matematici hanno mostrato che l’esecuzione di un test rapido due volte a settimana è in grado di diagnosticare l’infezione prima che si generi il 70- 80 per cento del virus».

Certo, si tratta di un esperimento che pone seri dilemmi etici: è giusto infettare persone sane con un virus pericoloso come il Sars-CoV-2? Il comitato etico che ha supervisionato l’esperimento ha stabilito di sì. Però, questo studio fondamentale ci dice molte cose.

Innanzitutto, dei 34 individui inoculati col virus, solo diciotto, cioè il 53 per cento, si è infettato, mentre sedici, il restante 47 per cento, anche se ha ricevuto il virus non è stato infettato e non ha avuto sintomi.

Se gli scienziati avessero inoculato una dose più alta di virus si sarebbe infettata una percentuale maggiore di volontari, ma il comitato etico giustamente non lo ha permesso per non correre rischi.

Carica virale e sintomi

Il virus è cresciuto in maniera incredibilmente rapida in coloro che sono stati infettati. Questi individui hanno sviluppato i primi sintomi e sono risultati positivi al test molecolare in media meno di due giorni dopo l’inoculazione del virus.

Invece, basandoci sugli studi epidemiologici, noi finora pensavamo che il virus avesse un periodo di incubazione di 5 giorni, dal contagio allo sviluppo dei primi sintomi. Negli individui infettati i livelli del virus sono rimasti elevati per 9-12 giorni.

Dei diciotto pazienti infetti, sedici – pari all’89 per cento – hanno sviluppato i sintomi tipici delle altre infezioni respiratorie, quali mal di gola, naso che cola, e raffreddore. La febbre era meno comune, e nessuno di loro ha sviluppato la tosse persistente che è un sintomo tipico del Covid.

Tra gli infetti, dodici hanno perso più o meno completamente l’olfatto o il gusto, altro sintomo cardine del Covid. Cinque di loro avevano disturbi dell’olfatto e del gusto anche sei mesi dopo l’infezione; uno di loro, nove mesi dopo.

Alcuni degli individui inoculati col virus non hanno sviluppato alcun sintomo, anche se all’interno delle loro vie aeree superiori ospitavano quantità di coronavirus alte, identiche a quelle rilevate negli individui sintomatici, e che sono rimaste elevate per 9-12 giorni.

Questa totale mancanza di correlazione quantitativa tra carica virale e sintomi è di enorme rilievo. I soggetti infetti asintomatici, che in questo studio rappresentano circa il 50 per cento del totale, hanno cariche virali elevate alte, perciò sono portatori in grado di diffondere il virus: pensiamo a quanti giovani non vaccinati possono contagiare altri.

Vigile attesa

Infine, tra i volontari dello studio non si è verificato nessun decesso, nessuna malattia polmonare, nessun ricovero in terapia intensiva, il che significa che nella maggior parte dei casi, specie nei giovani, l’infezione da coronavirus dà una malattia lieve che guarisce senza bisogno di farmaci.

Questo studio, seppur condotto su volontari giovani, dimostra che il Covid è una malattia autolimitante, acuta, a esito perlopiù benigno. La tanto bistratta vigile attesa è, nella stragrande maggioranza dei casi, la cosa più saggia e giusta da fare.

Inoltre, questo studio ci insegna che il picco di carica virale si raggiunge meno di tre giorni dopo la comparsa dei primi sintomi, che in genere sono lievi. Ciò significa che nel mondo reale, durante le ondate epidemiche, la grande maggioranza di persone sviluppa sintomi e viene trovata positiva quando il loro picco di carica virale è già passato o sta per passare.

Curare questi individui con farmaci antivirali o con anticorpi monoclonali spesso non ha effetto, perché si iniziano a somministrare queste terapie troppo tardi, quando la carica virale sta già declinando grazie all’azione del loro sistema immune.

Certi individui infettati dal virus sviluppano la polmonite bilaterale e gli altri sintomi gravi del Covid, che si manifestano quando ormai i livelli del virus all’interno del loro corpo sono molto bassi, e sono perciò provocati non dal virus ma dalla super risposta infiammatoria mediata del nostro stesso sistema immune. Evidentemente, questi pazienti devono essere trattati solo con farmaci antinfiammatori e immunomodulatori.

Gli scienziati dell’Imperial College stanno continuando le loro ricerche per capire come mai così tanti dei soggetti ai quali hanno inoculato il Sars-CoV-2 non si siano infettati. Per ora, hanno osservato che in questi individui il virus è rimasto presente a livelli molto bassi, come se non riuscisse a moltiplicarsi, e poi in breve tempo è scomparso, il che suggerisce che il loro sistema immunitario ha combattuto il virus in maniera più efficace degli altri.

In futuro, riusciremo a capire perché alcune persone si ammalino di Covid in maniera grave e altre no. Alcuni studi paiono suggerire che l’immunità conferita dai coronavirus che provocano il comune raffreddore possa proteggere dal Covid, altri invece che certi individui possiedano un sistema immunitario più efficiente degli altri, che li protegge dalla malattia. Ma solo la scienza ci darà le risposte a questi interrogativi.

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