Per due settimane hanno dominato il dibattito pubblico. Sono state espressione efficace e materiale di un disagio vissuto da migliaia di studenti italiani. Poi sono scomparse, sono state smontate, rimosse non solo dai cortili delle università del paese, ma anche dalla nostra coscienza collettiva. È chiaro: dormire per terra quando si deve affrontare la sessione estiva è abbastanza complicato, per non dire impossibile. 

Ma la parabola delle tende, in cui studenti pendolari e fuorisede hanno dormito per giorni per protestare contro il caro affitti, lascia dietro di sé alcune domande ancora aperte: dove è andata a finire questa mobilitazione? Come mai anche un tema molto forte e sentito riesce a imporsi solo per un periodo così breve? E, soprattutto, perché questa dinamica sembra essere comune alla maggior parte dei movimenti e delle proteste che abbiamo visto in Italia negli ultimi anni? 

La dinamica della dimostrazione

La protesta è stata innescata dall’iniziativa spontanea di una studentessa del Politecnico di Milano e ha in una certa misura preso alla sprovvista le grosse organizzazioni universitarie che l’hanno poi rivendicata. Udu in primis: «Non ci aspettavamo che il tema “scoppiasse” in quel periodo», ammette Simone Agutuli, che dell’Unione degli universitari è responsabile delle politiche abitative. Del resto maggio non è il periodo più caldo per cercare casa, anzi: con la fine delle lezioni è piuttosto il momento in cui gli studenti si preparano a lasciare le città universitarie. 

«Abbiamo comunque tenuto alta l’attenzione sul tema per due settimane, non vedo come avremmo potuto tenere banco più a lungo. Ma ci stiamo preparando per rilanciare la mobilitazione a settembre, nel frattempo stiamo facendo un’indagine sui problemi abitativi con Cgil e il sindacato degli inquilini Sunia, per raccogliere dati sulla questione», continua Agutoli. 

Di certo la modalità scelta per la protesta era poco adatta a coinvolgere un numero ampio di ragazzi. «Ma è dall’epoca della riforma Gelmini che gli universitari non si organizzano in un movimento vero e proprio», dice Leonardo Piva di Sinistra universitaria, il gruppo che ha montato le tende di fronte alla Sapienza: «È anche più efficiente non organizzare manifestazioni di massa. A settembre speriamo però in una risposta più massiccia». 

Una comunicazione efficace sull’immediato, ma non in grado quindi di imporre la questione sul lungo periodo (nemmeno a livello politico). Complice anche il fatto che, con l’eccezione di Milano dove la protesta è dilagata anche tra i sindacati degli inquilini, quello che poteva diventare un tema trasversale è stato alla fine visto soltanto come di una parte, gli universitari. 

Una parabola familiare

Questa mobilitazione non è però un caso isolato: da anni ormai siamo abituati a vedere proteste e manifestazioni che monopolizzano il dibattito pubblico per periodi di tempo più o meno brevi e che sembrano poi scomparire. È accaduto in una certa misura per le proteste dei Fridays For Future, che ha lasciato spazio mediatico alle proteste più divisive e meno partecipate di organizzazioni come Ultima generazione. O ancora per le Sardine, che nel 2020 hanno scongiurato l’avanzata leghista in Emilia-Romagna ma che oggi sono scomparse dal dibattito pubblico (anche se si può poi discutere di quanto l’onda lunga di quell’impegno abbia influito nella vittoria di Elly Schlein alle primarie del Pd). 

Resta comunque il fatto che l’arco narrativo delle tende ci sembra familiare. E lo è, per diversi motivi. Primo tra tutti, un’agenda mediatica che impone velocità: l’economia dell’attenzione è un ambito sempre più competitivo. E poi anche per ragioni strutturali: «Da tempo», dice Massimiliano Panarari, sociologo della comunicazione dell’università Mercatorum di Roma, «non esistono più grandi movimenti di massa, ma solo gruppi che portano avanti single issues». 

L’economia dell’attenzione

La dinamica dell’intermittenza dell’attenzione è una delle principali cause anche dell’evoluzione dei movimenti ambientalisti: «In passato la cultura ambientalista ha generato un passaggio dal movimento al partito, quindi una maggiore strutturazione», osserva Panarari. Oggi quello che vediamo accadere con certi gruppi sembra quasi il contrario: «Le loro proteste sono degli happening, molto orientate a catturare l’attenzione dei media. Ma non c’è la tendenza verso l’istituzionalizzazione e la creazione di una comunità più ampia». Un atteggiamento che è figlio della logica emergenziale adottata dagli attivisti per il clima di nuova generazione, che non hanno più la prospettiva di lungo periodo dei loro predecessori.  

L’importanza della massa

Questa logica emergenziale domina però tutto il dibattito pubblico e il ciclo mediatico: non solo per quanto riguarda il clima. Ogni problema viene affrontato come un’emergenza, di cui ci si preoccupa per qualche settimana e che viene poi lasciato cadere, spesso senza alcun tipo di intervento risolutivo. 

«Come è avvenuto per le tende, anche le modalità di protesta di Ultima generazione richiedono un numero di persone più limitato e hanno una durata breve, sono pensate per dominare questo ciclo di attenzione mediatica che vive anche molto sui social», dice Annalisa Dordoni, ricercatrice di sociologia all’università Bicocca di Milano. «L’unica differenza è che sulla questione ambientale si è un po’ formato un movimento di massa: i Fridays For Future e Non una di meno sono forse gli unici movimenti più ampi degli ultimi anni in Italia. Quindi forse gli attivisti per il clima riescono a incidere un po’ di più a livello culturale». 

Ma la dimensione di protesta di massa, che in Francia si è vista per esempio nelle settimane di scontri per l’approvazione della riforma delle pensioni, in Italia è mancata del tutto sulla questione del caro affitti. E in generale manca nell’azione di opposizione al governo più di destra degli ultimi decenni. «Penso», spiega Dordoni, «che sia proprio una questione culturale: nel paese domina una mentalità molto individualista e neoliberista. Ci sono ancora minoranze attive che lottano, ma se queste minoranze non vengono supportate da movimenti di massa non possono ottenere vittorie a lungo termine: perché solo i movimenti di massa cambiano la cultura». 

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