«Pablo Escobar prendeva ai ricchi e dava ai poveri. Mi è piaciuto e l’ho tatuato». «Io sono qua dentro perché ho tentato di ammazzare uno, ma è vivo. In coma vegetativo». «A me la rieducazione non serve, sono già maturo». «Ora che esco devo sistemare una cosa, anzi uno».

Voci di dentro, voci di detenuti negli istituti minorili d’Italia: Bari, Roma, Milano. Proprio quest’ultimo istituto, il Cesare Beccaria, è scosso da un’indagine giudiziaria che vede coinvolte 52 persone: stanze di tortura, violenze inaudite e silenzi di vertici e perfino cappellani. Accuse tutte da dimostrare.

Due anni dopo l’approvazione del decreto Caivano, il modello di giustizia minorile secondo la destra al governo, entriamo dove finiscono nelle carceri dei ragazzi. Quelli che fuori le etichette chiamano anche maranza.

Quelli di dentro

Angelo, nome di fantasia come tutti quelli che useremo in questo reportage, è dentro. Non ha ancora 18 anni. Ha picchiato a sangue un uomo: dopo il coma non è morto, è in stato vegetativo. Perché l’ha fatto? «Dava fastidio a dei ragazzi e lo abbiamo picchiato io e altri amici». Non è così, quell’uomo lo aveva visto per la prima volta, su di lui si sono accaniti senza alcuna ragione, ma Angelo prova a dare un barlume di ragione alla bestialità.

Lo strazio diventa insopportabile quando racconta la sua di storia: «A me non viene a trovarmi nessuno, io non so che fine hanno fatto i miei genitori, non l’ho mai saputo. A me è mancato tutto: l’affetto di qualcuno. Ho solo una nonna». Non c’è alcuna richiesta di compassione nel suo racconto, la sua voce sembra monocorde. Chiude con poche parole: «Vorrei una vita normale».

“Normale” è l’aggettivo più gettonato quando intervistiamo i detenuti. Li incontriamo nelle sale teatro, nelle aule di scuola, nei corridoi che diventano un set per le nostre riprese. Il loro normale si declina in modi diversi. Normale come una passeggiata al mare. Normale come abbracciare un figlio. Normale come fumare una sigaretta con un amico. Qui mare fuori non c’è, la popolare fiction resta solo una caricatura, una finzione, anche se riuscitissima.

«Oggi arrivano all’istituto penale minorile non come soggetti nudi e crudi, ma come soggetti che sono già organici alla criminalità comune o, peggio ancora, a quella organizzata. Questa è la prima differenza rispetto agli anni scorsi, ma abbiamo un trend in crescita: i reati di violenza. Un aumento legato a un fenomeno di cui si parla poco che è la tossicodipendenza e l’abuso di sostanze. Non solo le sostanze classiche come la cocaina, il crack, ma anche ketamina così come l’abuso di farmaci».

A parlare è Nicola Petruzzelli, il direttore dell’istituto minorile di Bari. Uno di quelli che servono il paese e la Costituzione. Ha superato i tre decenni alla guida del carcere pugliese, è dentro pure lui in qualche modo.

Al Nord i ragazzi sono stranieri minori non accompagnati, reclusi che affrontano la detenzione, l’assenza di riferimenti esterni e la convivenza con gli italiani. Al Sud solitamente ci sono i figli della mala locale o chi ha percorso le strade della violenza che si incrociano con quelle della dipendenza.

«Non dimentichi una cosa, noi siamo il paese delle urla manzoniane», dice. Le grida evocate nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni per raccontare le leggi di cartapesta, enunciate e mai applicate. Uno degli ultimi esempi è la promessa di Carlo Nordio di affrontare il sovraffollamento con la detenzione differita per i tossicodipendenti, ma è una misura già contenuta in leggi pregresse. Leggi a bizzeffe, ma spesso senza fondi e inapplicate. Quando si parla di giustizia minorile, le urla manzoniane sono tante, così come le mancanze. Distrazioni che non risparmiano nessuno, questo governo ha peggiorato il quadro, ma quelli precedenti sceglievano il niente come orizzonte permanente.

«Noi applichiamo gran parte dell’ordinamento penitenziario per gli adulti. C’è una legge che prevede strutture dedicate per i colloqui per la convivenza con i familiari, ma è una norma a costo zero. Nelle carceri minorili si dovrebbero dividere i ragazzi dai 14 ai 18 anni, che sono minori veri e propri, e i maggiorenni che vanno dai 19 ai 25 anni, i giovani adulti. Li dovremmo separare, ma non si può», dice Petruzzelli.

Specializzazione mai

Poi c’è un altro deficit evidente che è diventato strutturale: la mancanza di specializzazione degli agenti. Un requisito contenuto nelle norme europee, ma ignorato. L’ultimo corso di specializzazione c’è stato nel 2015, il novanta per cento degli agenti non lo ha svolto, e così si mutua il personale dal contingente ordinario, quello delle carceri per adulti. Manca la specializzazione, e anche la formazione, il governo ha ridotto anche i mesi previsti.

Al Beccaria di Milano ci sono venti detenuti in più rispetto al numero previsto. «In cella siamo quattro, uno di noi dorme a terra», racconta un ragazzo recluso. E gli agenti? «Qui la stragrande maggioranza degli agenti non è formata, l’80 per cento ha meno di due anni di esperienza», dice la nuova comandante della polizia penitenziaria, Iolanda Tortu, arrivata dopo l’indagine che ha travolto agenti, funzionari, dirigenti. Alcuni poliziotti penitenziari lavorano ancora nell’istituto, ma non a contatto con i ragazzi. La ragione è legata all’organico insufficiente. Qui a Milano mancano almeno venti agenti. A Bari ne mancano 17. A Roma, Casal del Marmo, servirebbero altri venti poliziotti penitenziari.

«Abbiamo fatto un calcolo sullo straordinario annuale, siamo nell’ordine di 12mila ore in dodici mesi, questo abbassa il livello di attenzione, non posso negarlo», dice Linda De Maio, da pochi mesi comandante della polizia penitenziaria all’istituto minorile romano. Specializzazione e formazione pari a zero, carenza di personale e adeguamento strutturale solo sulla carta. Manca anche tutto il resto, come, ad esempio, le strutture sanitarie per certificare la dipendenza patologica.

Nella Puglia, a guida centrosinistra, non c’è la possibilità di fare l’analisi tossicologica accurata a carico della fiscalità generale. «Io ho portato i ragazzi in laboratori privati per certificare la dipendenza, l’esame costa 450 euro. Un esame tossicologico accurato consente di accertare la reale dipendenza ed evitare falsi positivi», dice Petruzzelli.

Camminare tra blindo e cucine, tra celle e formazione, in un carcere minorile è distopico. A volte sembra di guardare un quadro disperante, invece è incredibilmente complesso, ci sono storie di riscatto dentro sentieri segnati, vite che sembrano già scritte in un disarmante trionfo del determinismo sociale. Il governo ha previsto la visita obbligatoria per i futuri magistrati in un istituto di pena, dovrebbero introdurla anche per i politici che raccattano voti sulla disperazione e il disagio. Ma non tutto è segnato.

«Ho imparato a cucinare. Non sai quante ne ho combinate, ora sono stanco a soli 21 anni. Cambio vita, dipenderà solo da me», dice uno dei ragazzi. Poi c’è Antonio con quell’orrore che porta addosso: «Vorrei diventare un bravo ragazzo».

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