Il 12 giugno si vota, in un’unica giornata, su cinque quesiti referendari in materia di giustizia. La data coincide con il primo turno di elezioni amministrative in più di 900 comuni. Riguardano: le firme raccolte per candidarsi al Csm; il voto degli avvocati nei consigli giudiziari; la separazione delle funzioni tra giudici e pm; le misure cautelari e l’abolizione della legge Severino.

I referendum sono stati promossi dalla Lega e dal partito radicale, che hanno condotto insieme la campagna di raccolta firme la scorsa estate, anche se poi il deposito è avvenuto con le proposte approvate da 9 consigli regionali guidati dal centrodestra.

A complicare il dibattito, fino ad oggi decisamente sottotono, è il fatto che i quesiti riguardano aspetti molto tecnici e dunque è complicato che possano polarizzare l’elettorato. Inoltre, in parlamento è in discussione il disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, votato anche dalla Lega, che prevede la modifica delle norme su cui incidono i tre quesiti  che riguardano la vita interna della magistratura. Il testo, però, arriverà al Senato dopo il voto referendario: la capigruppo di Palazzo Madama ha infatti spostato dal 14 al 15 giugno la data esatta dell’esame in Aula.

Le firme per candidarsi al Csm

Il primo quesito, che si troverà sulla scheda verde consegnata ai votanti, riguarda l’abrogazione dell’obbligo di raccolta firme, tra le 25 e le 50, per il magistrato che vuole candidarsi al Consiglio superiore della magistratura.

Il tema riguarda il meccanismo con cui vengono eletti i consiglieri togati del Csm. Per candidarsi, infatti, oggi devono presentare tra le 25 e le 50 firme a sostegno del loro nome. Questa previsione, nella attuale legge elettorale del Csm, serve a far sì che i candidati possano contare su una soglia minima di rappresentatività: avviene così anche per i candidati in politica, per esempio. Le firme sembrano poche, ma va considerato che la platea degli elettori è di circa 9 mila magistrati. Inoltre, esistono in Italia anche uffici molto piccoli e dunque l’aspirante candidato potrebbe non avere materialmente intorno a sè almeno 25 colleghi pronti a firmare. Per questa ragione, la raccolta delle firme è facilitato per i candidati che siano iscritti uno dei gruppi associativi, che attualmente sono Magistratura indipendente; Autonomia e Indipendenza; Unità per la Costituzione; Area; Magistratura democratica; Movimento per la giustizia e Articolo 101. Per un gruppo associativo, che può contare su un buon numero di iscritti, la raccolta delle firme è un puro elemento di formalità.

Secondo i sostenitori del sì, eliminare le firme significa ridurre il peso dei gruppi associativi e quindi il condizionamento delle “correnti” nella presentazione delle candidature al Csm. Senza la raccolta firme, infatti, virtualmente ogni magistrato che aspiri a diventare togato al Csm può candidarsi senza alcuna incombenza.

L’obiezione a questo ragionamento è che, eliminando le firme, si elimina quella minima scrematura iniziale alle candidature. 

Anche la riforma dell’ordinamento giudiziario in via di approvazione al Senato prevede nella nuova legge elettorale del Csm l’eliminazione della raccolta firme. A prescindere dal successo di questo quesito, quindi, la raccolta firme verrà con tutta probabilità comunque abolita.

Equa valutazione dei magistrati

Votando sì al quesito sulla scheda grigia, viene abrogato il divieto di voto dei membri laici nei consigli giudiziari.

I consigli giudiziari sono dei piccoli Csm locali, presenti in ogni distretto. All’interno di questi consigli sono eletti i magistrati che operano nel distretto, insieme a dei consiglieri laici individuati tra gli avvocati e i professori universitari. Il numero di membri cambia a seconda nel numero di magistrati presenti nel distretto: in quelli con più di 350 magistrati, ci sono 3 avvocati e un professore; in quelli con meno di 350 magistrati, invece, gli avvocati sono 2.

Tra le varie funzioni che questi consigli svolgono, c’è anche la valutazione di professionalità dei magistrati, che serve per i passaggi di anzianità e di stipendio. Oggi i componenti laici non hanno diritto di voto nel giudizio di professionalità dei magistrati e in alcuni distretti nemmeno la possibilità di partecipare, senza votare, alla seduta. 

Secondo i promotori, introdurre il diritto di voto per i membri laici esterni alla magistratura rende più equilibrata la valutazione di professionalità. Attualmente, infatti, le valutazioni sono sostanzialmente tutte positive (secondo i dati del ministero, tra il 2017 e il 2021 le valutazioni positive sono state il 99,2 per cento). 

I contrari, invece, ritengono che sia improprio che i magistrati vengano valutati da soggetti esterni e in particolare dagli avvocati. Questo perchè il giudizio degli avvocati potrebbe essere condizionato da ragioni di contrasto professionale tra l’avvocato membro del consiglio giudiziario e il magistrato giudicato, soprattutto nei distretti più piccoli. Questo potrebbe creare una soggezione del magistrato nei confronti dell’avvocato, nel momento in cui si ritrovano contrapposti in un processo.

La riforma dell’ordinamento giudiziario prevede comunque di modificare questa norma: non introducendo il voto secco dei laici, ma il voto “unitario” dell’avvocatura in consiglio giudiziario, previo parere del locale consiglio dell’ordine. In questo modo, il voto degli avvocati non sarebbe individuale del singolo, ma necessariamente derivante dal parere del consiglio dell’ordine.

Separazione delle funzioni tra giudici e pm

Il quesito sulla scheda gialla riguarda la separazione delle funzioni tra giudici penali e pubblici ministeri. 

Attualmente, i magistrati hanno una carriera unica: fanno un unico concorso uguale per tutti e poi scelgono che funzione svolgere tra giudice penale, giudice civile e pubblico ministero. Poi, in corso di carriera, possono cambiare ruolo fino a quattro volte (ma la cosa avviene piuttosto di rado: ogni anno sono in media 19,5 i magistrati che passano da giudice a pm e 28,5 quelli che da pm passano alla funzione giudicante).

L’obiettivo dei promotori è di raggiungere un primo stadio di separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, eliminando la possibilità di passare da una funzione all’altra. In questo modo, un neo-magistrato deve scegliere in che ruolo cimentarsi per l’intera vita professionale. L’unica possibilità di cambio rimarrebbe per i giudici, che potrebbero passare dai tribunali penali a quelli civili.

In questo modo, secondo i sostenitori del sì, il sistema giustizia si riequilibrerebbe perchè non ci sarebbero più commistioni tra il magistrato che giudica – che deve essere imparziale rispetto sia all’accusa che alla difesa – e il magistrato che svolge le indagini e accusa. Oggi, invece, proprio il fatto di poter passare da un ruolo all’altro rende troppo vicine due funzioni che nel processo dovrebbero essere distanti.

Secondo i contrari, invece, questa commistione non esiste. Portato all’eccesso il ragionamento, infatti, bisognerebbe allora dividere anche i giudici dell’appello da quelli del primo grado, perchè la contiguità professionale potrebbe farli sempre scegliere in favore di confermare le sentenze emesse dai colleghi. Inoltre, esisterebbe un rischio: isolare eccessivamente i pm e ridurre la possibilità di ogni magistrato di arricchire il proprio bagaglio di professionalità attraverso lo svolgimento di funzioni diverse.

Anche questa previsione è modificata dal disegno di legge sull’ordinamento giudiziario: il testo non elimina il passaggio di funzioni, ma lo limita a un solo passaggio, che può essere chiesto solo nei primi anni di carriera.

Custodia cautelare

Il referendum sulla scheda arancione riguarda la modifica dell’articolo 274 del codice di procedura penale, che riguarda le misure cautelari. In particolare, il quesito prevede di eliminare la misura cautelare in carcere nel caso di rischio di “reiterazione dello stesso reato”, quando non si tratti di reati gravi.

La questione di procedura è complicata. Nella fase delle indagini preliminari, quindi prima che il processo inizi e che ci sia una sentenza di condanna, il pm può chiedere e il giudice per le indagini preliminari disporre una misura cautelare personale per l’indagato. Le misure cautelari sono gradate a seconda del reato per cui si indaga e possono essere per esempio l’obbligo di firma, il divieto di avvicinamento, l’obbigo di dimora in un determinato luogo, oppure quelle più invasive come gli arresti domiciliari o la detenzione in carcere. Il gip le dispone sulla base di alcune valutazioni: innanzitutto devono esserci gravi indizi di colpevolezza, poi si valutano il rischio che l’indagato inquini le prove, il pericolo di fuga e il rischio che commetta nuovamente il reato per cui è indagato.

I promotori intendono ridurre i casi in cui è possibile disporre una misura cautelare giustificandola con il rischio che l’indagato commetta di nuovo il reato. Se il quesito passasse, questa motivazione potrebbe essere usata solo per delitti gravi, come quelli commessi con armi o di criminalità organizzata. Non più, invece, per reati considerati meno gravi.

Questa modifica serve a ridurre i casi di indagati che scontano una misura cautelare in carcere senza una sentenza che li condanni e che quindi – nei casi più gravi – finiscano in carcere come forma di pena anticipata. Il pericolo di reiterazione del reato, infatti, è la motivazione che più di frequente viene utilizzata per disporre una misura cautelare. Secondo i dati, in Italia si stima che in trent’anni siano state quasi 100 mila le persone che sono state private ingiustamente della libertà personale, 30 mila delle quali sono state indennizzate per ingiusta detenzione per un totale di quasi 900 milioni di euro.

Secondo i critici, invece, questo quesito rischia di generare l’effetto opposto rispetto a quello desiderato, creando un cortocircuito. Il taglio di una parte dell’articolo, infatti, potrebbe fare sì che una misura cautelare non possa essere disposta nel caso di rischio di reiterazione di reati che non rientrano tra quelli “gravi” indicati nella parte non toccata. Per esempio, lo stalking. Inoltre, riducendo la possibilità di disporre le misure cautelari, aumenterebbero i rischi per la sicurezza pubblica.

Legge Severino

Votare sì nella scheda rossa significa abrogare del tutto la cosiddetta legge Severino. Approvata nel 2012 dal governo Monti, prende il nome dell’allora ministra della Giustizia, Paola Severino, disciplina i casi di eleggibilità e candidabilità di parlamentari e amministratori locali che siano sottoposti a procedimenti penali per alcuni specifici reati.

La legge prevede che parlamentari, europarlamentari e membri del governo non possano essere candidati oppure decadano dalla carica se, anche in corso di mandato, sono stati condannati in via definitiva a una pena superiore a due anni per reati di mafia, terrorismo e reati contro la pubblica amministrazione con pena superiore a 4 anni. Per gli amministratori locali, invece, è prevista l’incandidabilità in caso di condanne definitive per mafia, terrorismo, corruzzione e concussione, ma anche se hanno riportato una condanna definitiva superiore a due anni per delitti non colposi. In questi stessi casi, si prevede la decadenza o la sospensione degli amministratori locali anche nel caso in cui abbiano riportato condanna non definitiva, dunque in primo o secondo grado.

I promotori del referendum ritengono che vada eliminato l’automatismo per i casi di incandidabilità e ineleggibilità e che vada ripristinata la libertà del giudice di prevedere, insieme alla sentenza di condanna, la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Inoltre, secondo loro è incostituzionale la sospensione degli amministratori locali in caso di condanna con sentenza non definitiva.

Secondo i contrari, invece, la legge Severino andrebbe modificata, soprattutto nella parte in cui prevede la sospensione in caso di sentenza non definitiva, ma non abrogata del tutto. Da mantenere, infatti, sarebbe la parte in cui si prevedono l’incandidabilità e l’ineleggibilità per i reati di mafia, terrorismo e reati contro la pubblica amministrazione. 

Le posizioni dei partiti

Per quanto riguarda gli schieramenti politici a sostegno o contro il referendum, la divisione maggiore è tra centrodestra e centrosinistra.

Il sì ai quesiti è sostenuto da Lega, Forza Italia, Azione, i radicali e Italia viva.

Alcuni partiti della attuale maggioranza di governo, dunque, sostengono il referendum ma voteranno anche a favore del disegno di legge di riforma dell’ordinamento. Politicamente, la scelta viene motivata con il fatto che il ddl sia stato il frutto di una mediazione tra partiti che solo eccezionalmente fanno parte della stessa maggioranza vista la natura tecnica dell’esecutivo Draghi. Dunque, se la lealtà nei confronti del governo rimane, i partiti del sì ritengono che la loro posizione politica in materia di giustizia sia meglio rappresentata dai quesiti referendari.

Fratelli d’Italia, invece, si è schierata per il sì solo sui primi tre quesiti e per il no sugli altri due.

Sul fronte del no, invece, si colloca il Movimento 5 Stelle.

Il Partito democratico ha scelto di lasciare libertà di coscienza ai suoi iscritti: il segretario Enrico Letta ha dichiarato di essere per il no, ma ha aggiunto che «il partito non è una caserma». Infatti alcuni parlamentari, come il costituzionalista Stefano Ceccanti, hanno dichiarato che voteranno sì, così come alcuni sindaci come Giorgio Gori di Bergamo.

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