L’economia italiana si sta fermando ed è concreto il rischio che nel 2023 entri in recessione. L’inflazione, spinta dall’impennata dei prezzi dell’energia e dei generi alimentari, erode inesorabilmente il potere d’acquisto dei redditi fissi - le retribuzioni contrattuali crescono di poco più dell’uno per cento, a fronte di un incremento dei prezzi al consumo vicino al dodici per cento - e allarga le disuguaglianze, perché penalizza in proporzione di più le famiglie meno abbienti.

Una legge di bilancio inadeguata

La manovra di bilancio varata dal governo Meloni è del tutto inadeguata a rilanciare la crescita e aggraverà ulteriormente la condizione sociale del paese.

Oltre metà delle risorse sono destinate agli interventi contro il caro energia. È una scelta inevitabile, ma con un orizzonte temporale brevissimo: le risorse finiscono a marzo. Se la crisi energetica proseguirà - come è probabile - ancora a lungo, per la parte rimanente dell’anno non ci saranno soldi per affrontarla.

La legge di bilancio è particolarmente debole anche sul fronte degli investimenti: le principali misure per stimolarli escono indebolite o cancellate. È così per il Superbonus 110 per cento, modificato per l’ennesima volta senza risolvere l’enorme problema dei crediti fiscali incagliati e senza definire una strategia alternativa per l’efficientamento energetico degli edifici.

Gli incentivi di transizione 4.0 dall’anno prossimo saranno la metà rispetto a quelli in vigore fino al 2022. Da ultimo, ma non certo in ordine di importanza, il Pnrr, sulla cui sorte grava una pesantissima incertezza. 

In campo sociale, al di là di alcune misure apprezzabili ma transitorie - l’ampliamento della platea del bonus sociale luce e gas, il fondo da 500 milioni di euro per gli aiuti alimentari gestiti dai comuni e l’indicizzazione maggiorata per le pensioni minime - la legge di bilancio si segnala per il suo forte tasso di iniquità. Vengono drasticamente e permanentemente ridimensionate le risorse per le politiche contro la povertà (-20 per cento a decorrere dal 2024) e si indebolisce fortemente l’indicizzazione di oltre 3 milioni di pensioni superiori a quattro volte il minimo (circa 17 miliardi in meno in tre anni). Pensioni da ceto medio, non certo d’oro.

Flat tax ingiustificabile

L’estensione della tassa piatta sulle partite Iva fino a 85 mila euro di ricavi è una decisione del tutto ingiustificabile, che allarga ulteriormente la disparità di trattamento tra dipendenti e autonomi concedendo un favore fiscale enorme (in media 7.700 euro) a una platea relativamente ristretta di potenziali beneficiari (circa 60 mila contribuenti, in gran parte professionisti). Il vice ministro Leo parla di un «ponte verso una futura riforma fiscale».

In realtà si prosegue nel tunnel della frammentazione del sistema tributario, aggravando la “fuga dall’Irpef” e peggiorando l’iniquità orizzontale di un fisco in cui ormai la progressività riguarda solo i redditi da lavoro dipendente e le pensioni. Altre misure senza alcun senso dal punto di vista dell’efficienza e dell’equità sono la flat tax incrementale, che sarà in vigore per il solo 2023 e per i soli i titolari di reddito d’impresa e i lavoratori autonomi, costando ai contribuenti oltre 800 milioni di euro nel 2024 (con oneri probabilmente sottostimati), l’imposta sostitutiva sulle mance (che rischia di essere un favore più per i datori di lavoro che per i dipendenti) e l’aliquota ridotta dal 26 al 14 per cento per i redditi da capitale (un autentico regalo ai contribuenti più ricchi).

Dulcis in fundo, si fa per dire, l’evasione fiscale. Secondo l’ultima relazione del Mef il tax gap delle principali imposte evase (Iva, Irpef lavoro autonomo e impresa, Irap e Imu-Tasi) è diminuito da 83 miliardi nel 2017 a 70 miliardi nel 2020.

Questo visibile miglioramento della tax compliance (13 miliardi in tre anni) è frutto di scelte coraggiose e lungimiranti, a partire dall’introduzione e progressiva estensione della fatturazione elettronica decisa dai governi di centrosinistra nella 17esima legislatura.

Serviva andare avanti su questa linea. Il governo Meloni ne ha scelto invece un’altra: la strada dei condoni e delle misure “segnaletiche” di favore verso gli evasori. Un intero capo della legge di bilancio è dedicato a quelle che il governo pudicamente chiama «misure di sostegno in favore del contribuente»: un festival di definizioni agevolate, sanatorie, ravvedimenti speciali, conciliazioni agevolate, regolarizzazioni che altro non sono che condoni o para-condoni.

Norme che nel 2023 costeranno allo stato ben 1,1 miliardi di minori entrate. Soldi che potevano essere utilizzati per finalità ben più utili alla collettività. La legge di bilancio inoltre innalza da mille a 5mila euro la soglia del divieto di trasferimento di denaro contante e stabilisce la non applicabilità dell’obbligo di accettare i pagamenti con carta per cifre inferiori a 60 euro.

Due misure senza alcuna motivazione – al di là di quella, risibile, che la soglia più alta per i contanti «aiuta i poveri» (cit. Meloni) - se non di strizzare l’occhio a chi ha bisogno di usare liberamente i contanti ed evitare la tracciabilità dei pagamenti per evadere più facilmente le tasse.

La battaglia per il fisco giusto

Il combinato disposto di queste scelte è disastroso ed è il terreno più importante su cui si misura concretamente l’iniquità di questa manovra di bilancio e, più in generale, della politica economica della destra. Di fronte a ingiustizie di questa portata, non basterà opporsi in parlamento presentando e cercando di discutere emendamenti. È necessario fare opposizione nel Paese, promuovendo un ampio movimento di opinione pubblica che contrasti apertamente il progetto fiscale della destra e si faccia portatore della difesa del valore costituzionale della progressività e della battaglia per un fisco più giusto, più semplice e più leggero per chi lavora e chi fa impresa.

È innanzitutto su questo terreno che si misurerà la capacità delle forze di opposizione di ritrovare una unità di intenti e costruire insieme una credibile alternativa di governo alla destra di Giorgia Meloni.

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