Strade traboccanti, piazze gremite, gente di ogni età che cammina gomito a gomito, sfiorandosi, stringendosi, sorridendosi. Sorridendosi sì, perché queste manifestazioni non vanno lette solo in termini “contro”. Certo, si è lì per condannare, ma la forza della condanna sta proprio nell’esserci con il proprio corpo. In un’era in cui le nostre comunicazioni passano sempre di più attraverso dei media che ci smaterializzano, che ci riducono a pixel, il corpo riacquista un valore profondo.

Certo la rete è importante, anche per organizzare una manifestazione, ma fino a quando lo sdegno, l’indignazione, la protesta rimangono intrappolati nei meandri del web, per poi impantanarsi nelle paludi dei social, rimangono sterili, non danno fastidio a nessuno. Basta spegnere lo schermo e tutto si azzera.

Nella rete non si radunano persone, si creano degli sciami digitali, che non diventano mai folla, perché non possiedono un’anima, uno spirito. In un gruppo online ciascuno di noi è un nessuno, una sigla, privato di ogni personalità. Lo sciame digitale, come quelli animali, è instabile, fugace, volatile, la massa classica, quella che scende per strada, fatta di corpi e volti invece, non è transitoria, è una formazione stabile. Parafrasando Elias Canetti la “massa è potere”, genera potere.

Quelle donne, quegli uomini di ogni età e provenienza marciano per le strade delle città, si toccano, si vedono, si contano. In uno sciame digitale nessuno marcia, nessuno si sfiora e per questo si dissolve con la stessa rapidità con cui si è formato, senza sviluppare energie politiche.

L’importanza del rituale

Ogni manifestazione è un rituale e un rituale cos’è in fondo se non una messa in scena (nel senso teatrale dell’espressione) di una collettività, qualunque essa sia? Un rituale è un dramma sociale, una performance che serva a contarci, a vederci. Ecco l’importanza dei corpi, della materia fisica di cui siamo fatti, che ci rendono persone, visibili, concrete, non ectoplasmi elettronici facilmente camuffabili. Il corpo svela chi sono e più corpi vicini, che camminano insieme, svelano chi siamo. Quegli sguardi rivolti l’uno all’altro, ai simboli di un desiderio comune di pace, ci dicono che non siamo soli. Ecco l’importanza del rituale.

Victor Turner, antropologo britannico degli anni Cinquanta che fece ricerca nell’allora Rhodesia, comprese che l’importanza del rituale della pioggia non era fatto solo per invocare l’acqua, ma per radunarsi, per contarsi, per vedere e sentire che si è parte di una comunità. Per sapere che anche in caso di difficoltà non si è soli. Questo è il senso profondo dell’incontrarsi, del condividere uno stesso spazio, uno stesso tempo.

L’incontro 

Se c’è una cosa che mi ha colpito in queste manifestazioni sono i sorrisi. Non mi si fraintenda: quei sorrisi non significano il dimenticare i tragici motivi per cui si è lì a manifestare, ma sono il gesto emotivo che rivela un senso di comunità ritrovata per i più grandi, scoperta per i più giovani.

Una strada dove le generazioni si incontrano per scandire gli stessi slogan, dove è chiaro a tutti che ci sono problemi più importanti delle piccole beghe quotidiane, per cui protestare. Che ci sono ideali che accomunano tutti e quei sorrisi in fondo sembrano rivolti a una parole, un concetto, che da troppo tempo era stato espulso da ogni lessico politico, in modo molto più grave, da quello della sinistra: “solidarietà”.

«C’è solo la strada su cui puoi contare, la strada è l’unica salvezza» cantava il compianto Giorgio Gaber. Sì e quella strada dobbiamo fare sì che rimanga nostra, che resti il luogo dove ci si incontra. 

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