I primi che vedo sono i bambini, ce ne sono tanti e sono ovunque.

Alcuni hanno la bandiera della Palestina pitturata sulle guance e alcuni tengono cartelli tra le mani. Su uno c’è scritto: «Se hai bisogno ti aiuto io a definire bambino». Li incontro prima di raggiungere il corteo, all’uscita della metro. È un bel gruppo, con loro degli adulti che, gentili, sorridendo, spiegano che fare, dove andare, come sventolare le bandiere così che non si imbroglino.

Li guardo, e ho una fitta al petto.

Se i bambini palestinesi li abbiamo abbandonati alle bombe, ai nostri stiamo cancellando il futuro, frammentando la loro speranza di un domani. In fondo, come possono venir su con la consapevolezza che dall’altra parte del mondo dei bambini, come loro, vengono uccisi? Come possono immaginare con la consapevolezza che nel loro paese chi avrebbe il potere di far qualcosa blocca chi prova a salvarli, quei bambini?

Un corteo fiume

Arriviamo al corteo. Il fiume di persone è impressionante.

L’inizio non riesco a vederlo, i manifestanti riempiono corso Buenos Aires e le arterie. Tutto ciò che scorgo, a una trentina di metri, è un capannello di ragazzi che tra loro stanno più fitti. Lì le bandiere della Palestina sono tante, c’è pure un’anguria gonfiabile, da lì arriva la voce di un ragazzo al microfono.

Free, free Palestine.

Rapido, il coro si allarga e tutti attorno a me prendono a gridare.

Free, free Palestine.

Mi giro: intonano pure i bambini.

Guardo alle loro spalle, e mi rendo conto di non riuscire più a scorgere la fine del corteo. È arrivata ancora tanta gente e adesso vedo solo le bandiere.

Il chiacchiericcio è alto. In lontananza, qualcuno canta Bella ciao. Dei tamburi alle mie spalle, cori ovunque. Il cielo è blu, i colori della Palestina, però, sono più forti e lo perforano.

Faccio qualche passo avanti, vorrei arrivare al centro.

La Gen Z

Ci sono tanti liceali, universitari. Molti hanno al collo una kefiah o in mano la bandiera di Rufy di One Piece, il manga; è il simbolo della Gen Z per le contestazioni sulla Palestina.

Sono loro quelli che vibrano di più.

Rapidi, fanno lo slalom tra le persone, cercandosi a vicenda, cantando, portando cartelli. «Illegittimo è il loro blocco navale, il nostro sciopero è umano», «Erano barche di cibo e medicine: un carico di vita». Gridano slogan, e lo fanno con cognizione. Glielo leggo negli occhi, lo sento nel tono: sono qui perché sanno cosa sta accadendo in Palestina, e gli è insopportabile.

Vicino a me c’è una ragazza. Kefiah al collo e sulle spalle lo zaino con cui tutti i giorni va a scuola; frequenta ancora il liceo. Con la sinistra sventola una bandiera di Rufy, con la destra tiene uno striscione assieme ad altre «Ogni giorno viene uccisa una classe di bambini». Quando faccio per leggere, lei mi sorride e io le chiedo chi siano, lei e le sue amiche.

Hanno tra i sedici e i diciannove anni e, coscienti che il futuro sia loro – che il futuro siano loro –, sono scese in piazza perché non lo vogliono, questo mondo che le generazioni precedenti si ostinano a cercare di ficcargli in testa. La ragazza mi dice che sta male da due anni, soffre. Che tutti i giorni sui social vede i video dei palazzi bombardati, i bambini che piangono madri e padri, e sente un peso enorme, e che non conosceva. Infine mi spiega che lei in ciò che sta facendo, in quella piazza, crede.

Non solo, mi dico, dopo averla salutata ed esser passato oltre, penso anch’io che le piazze piene siano utili a far sentire la nostra voce. Che siano tra le poche leve a disposizione nei confronti di un Governo che per fermare Israele non ha mai fatto niente. Ma servono anche a noi.

Da due anni assisto al massacro dei palestinesi e all’immobilismo del governo italiano, e mi sento frustrato, impotente, preda del dolore. Oggi però, pure se il malessere c’è ancora - certo che c’è: dove e come vuoi che se ne vada? -, mi sento appena più leggero. La sofferenza, ora che è condivisa con la gente attorno a me, è più sopportabile.

Non sei solo - dice questa piazza.

Palestina, non sei sola - dice questa piazza.

Continuo ad andare in giro e leggo altri cartelli. «Respect existence or expect resistance», «Gli italiani sanno cosa è giusto e cosa è genocidio», «Erano anche figli nostri». Questo in mano ce l’ha un’anziana ben vestita, truccata, a braccetto con un’altra, lei è in felpa e jeans, la bandiera palestinese come un mantello.

Parlano tra loro, dirigendosi, lente, verso il centro del corteo. La prima racconta alla seconda la manifestazione che ieri, spontanea, ha acceso la città dal pomeriggio alla notte. Le dice che non lo sapeva mica, di quel corteo: dal balcone di casa ha visto i ragazzi sfilare e, senza pensarci, li ha raggiunti. Le dice che ha fatto tardi, e che è stato bello: era pieno di giovani, racconta, e mi ha commossa. Significa che c’è speranza, no?, chiede all’amica.

Poi le perdo nella folla.

Guardo avanti ma scorgo solo teste e bandiere. Sono troppo in fondo, gente ovunque, e non vedo più dove stiamo andando. Ma è la direzione giusta, lo so; lo sappiamo.

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