Ho passato gli ultimi anni a fare ricerca sulle periferie italiane e, fino a qualche settimana fa, non ne avevo ancora trovato la definizione perfetta. Poi è arrivata l’illuminazione: non a me, ma a Monica Cirinnà, nota esponente del Pd romano.

Lamentandosi del collegio uninominale in cui è stata catapultata come candidata al Senato, comprendente i quartieri più periferici della capitale e alcuni comuni limitrofi, ha definito quelle aree come «territori inidonei»: innanzitutto per «i suoi temi», che sono poi quelli dei diritti civili, ma più in generale per un partito che ha perso ogni radicamento e connessione con le aree più disagiate, più fragili, più povere delle città italiane.

Divorzio politico

Nel suo candore, quella definizione – le periferie come “territori inidonei” – descrive perfettamente il divorzio, avvenuto soprattutto nel corso dell’ultimo decennio, tra i partiti di sinistra e quella che un tempo era la loro classe sociale di riferimento, composta prevalentemente da operai, disoccupati e giovani più o meno precari.

Era quella la classe gardée della sinistra, che però oggi guarda altrove, attratta dalle ricette protezioniste, sul piano economico o identitario, proposte delle formazioni populiste. Oppure rifugiata sempre più spesso nell’area grigia del non-voto, creando un vuoto di rappresentanza che nel corso degli anni si è allargato a dismisura, minando le basi sociali sulle quali si regge la democrazia.

Del resto, le periferie italiane non raccontano soltanto una storia di diseguaglianze crescenti, dove alle disparità economiche si aggiungono, rafforzandole, quelle educative, culturali, territoriali e infrastrutturali. Queste diseguaglianze sociali finiscono per riflettersi sempre più spesso in diseguaglianze di natura politica, perché alla fine le uniche voci che riescono a farsi sentire – e rappresentare – all’interno delle istituzioni sono quelle che un politologo statunitense avrebbe definito «con un forte accento da upper class». 

Fra M5s e astensione

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Sotto questo profilo, i dati delle ultime elezioni politiche (quelle del 2018) sono decisamente emblematici e preoccupanti. In quel caso, il comportamento elettorale delle aree periferiche delle città italiane aveva seguito principalmente due direttive: da un lato, un voto anti-sistema e, dall’altro, un voto contro-sistema.

Il catalizzatore del primo voto è stato il M5s che, con la sua carica protestataria e un (vago) programma di protezione sociale (“contro la povertà”), era riuscito a incanalare le ansie degli elettori socialmente più periferici. In questo modo, il partito di Grillo superava a Scampia il 65 per cento dei consensi o, in alcune borgate popolari di Roma (come la Magliana, Acilia, Tor Cervara) o di Palermo (quartiere Brancaccio) sfiorava il 45 per cento. All’opposto, nei quartieri urbani più agiati – come i colli bolognesi, i Parioli a Roma e l’area attorno al Duomo milanese – i consensi per i pentastellati si sgonfiavano fin sotto il 10 per cento.

In questo contesto, esisteva un solo attore in grado di competere con il M5s per la conquista dei voti delle periferie. Peraltro non si trattava di un attore politico vero e proprio, ma di un aggregato di pulsioni, delusioni e disillusioni che alimentava la marea dell’astensione.

Infatti, nelle stesse aree dove si è registrato l’exploit per il partito oggi guidato da Giuseppe Conte, il non-voto – espressione di un distacco radicale contro il sistema politico – raggiungeva percentuali vertiginose, tra il 40 e il 45 per cento dell’elettorato, con quasi 20 punti di differenza rispetto alla media nazionale.

Mutazione genetica

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Così, tra un voto al M5s e un’astensione, nelle aree urbane periferiche, soprattutto nelle città del Mezzogiorno, più di 7 elettori su dieci hanno espresso un voto anti-sistema o contro-sistema. Di conseguenza, lo spazio rimasto per le forze politiche tradizionali, tanto di centrodestra quanto di centrosinistra, era residuale, concentrato prevalentemente nei quartieri economicamente più avanzati, che erano stati appena sfiorati dalle conseguenze della Grande Recessione, con tassi di disoccupazione dimezzati rispetto alle aree periferiche, una percentuale quasi doppia di diplomati o laureati e una quota di operai ridotta, compresa tra il 15 e il 20 per cento della popolazione.

È in queste aree, sia nelle città del nord che in quelle del sud, che il Pd ha raccolto i suoi maggiori consensi, nonostante la storica débâcle subita a livello nazionale. Ed è qui che ha preso forma la metafora del “partito delle Ztl” per descrivere il rapporto del Pd con i suoi “nuovi” elettori, che non provengono più dalla working class ma appartengono specialmente a quella “classe creativa” di cui parlano i sociologi o, come preferiva chiamarla lo storico Paul Ginsborg, al «ceto medio riflessivo», composto da docenti, dirigenti, impiegati pubblici e professionisti socioculturali di vario genere.

Nel giro di poco più di un decennio, si è assistito quindi alla mutazione genetica del Pd, e il voto di classe ha invertito le sue polarità: abbandonata dai ceti/quartieri popolari, preoccupati per la perdita del proprio lavoro o del proprio status, la sinistra si è rinchiusa nelle aree borghesi e bohemiennes delle metropoli italiane, dove i temi civili e le preoccupazioni ambientali stanno in cima alla lista delle priorità.

Sono diventati questi, insomma, i nuovi “territori idonei” nei quali avrebbe preferito gareggiare Monica Cirinnà, dove il Pd aveva raggiunto, anche nel 2018, il 30 per cento dei consensi: il quartiere pariolino a Roma, la collina torinese, i Navigli a Milano. Oppure la collina napoletana di Posillipo, ai cui piedi si trova l’ex area industriale di Bagnoli dove l’allora partito renziano raggranellava appena il 14 per cento dei voti mentre il M5s faceva incetta di consensi (56 per cento).

Cosa resta in periferia

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Ma che cosa resta oggi delle periferie italiane e, soprattutto, degli attori politici che cinque anni fa se ne erano fatti megafono? Sul piano sociale ed economico, in particolare dopo una pandemia che ha fiaccato ogni sforzo di ripresa e un prossimo autunno che si prospetta rovente per le fasce più povere della popolazione, tutte le periferie, da quelle urbane a quelle rurali delle cosiddette aree interne, si trovano in una condizione simile, se non peggiore, a quella di cinque anni fa. Al di là degli slogan, la povertà non è stata abolita – ma neppure ridotta – e quasi nessuna periferia è stata seriamente rammendata.

Però, sul piano elettorale le aree più marginali e fragili delle nostre città, a dispetto della loro condizione sociale, mantengono una assoluta centralità. Non tanto nei programmi dei partiti, dove il tema è sostanzialmente assente, ma per le scelte elettorali di chi vive in quelle aree.

Il grande investimento di fiducia che gli “elettori periferici” fecero nel 2018 verso il M5s, soprattutto al sud, appare ormai quasi del tutto dissipato. La carica anti-sistema, fortunatamente incanalata all’interno delle istituzioni democratiche, non può certo essere riscaldata in modo posticcio da un leader in doppiopetto aspirante Mélanchon. Tuttavia, ad oggi non ci sono nuove proposte politiche in grado di farsi carico credibilmente delle domande che provengono dalle periferie. Il Pd, e il centrosinistra in senso lato, hanno riscoperto la loro agenda social-laburista, ma soltanto in extremis, senza un’adeguata rielaborazione culturale né un necessario rinnovamento parlamentare.

Anche a destra, nonostante la crescita di consensi per FdI, derivante più da un rimescolamento di forze tra i partiti della coalizione che non da uno sfondamento verso nuovi mercati elettorali, l’ingresso nelle periferie appare un tabù difficilmente valicabile.

Ecco perché l’unica carta che resta in mano agli elettori delle tante e diverse periferie italiane è quella dell’astensione contro-politica. Un non-voto di chi non conta e di chi non intende farsi contare. Ma che finirà per impoverire la rappresentanza politica, dando un’ulteriore torsione oligarchica alla democrazia. Il 25 settembre l’accento dell’upper class italiana si farà sentire più forte che mai: e non sarà affatto un bene.

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