Le contorsioni politiche dei partiti che passano dalla protesta a responsabilità di governo, il processo di normalizzazione che li investe, ha fatto parlare a più riprese di una stagione populista giunta alla fine.

Di «post-populismo» parla anche il Rapporto del Censis sulla situazione sociale del paese, descrivendo un quadro di percezione dei rischi e domande di sicurezza lontano da aspettative irrealistiche e inclinazioni verso la demagogia.

Dunque l’Italia «laboratorio del populismo», secondo l’incisiva espressione di Marco Tarchi, il paese in cui sono nati e convissuti populismi diversi e molteplici, sta cambiando volto? 

In realtà è difficile crederlo, per ragioni che possono apparire chiare ripartendo dall’analisi delle cause della crescita dei populismi: dall’aumento delle diseguaglianze all’impoverimento relativo di settori della popolazione, dal disorientamento legato all’incombere di minacce globali fino alla crisi dei partiti tradizionali.

Niente nell’orizzonte del presente, in cui le sofferenze economiche e le paure si moltiplicano, e le risposte della politica appaiono cronicamente deboli, lascia pensare che siano mutate le condizioni che hanno costituito negli ultimi quindici anni il terreno fertile per la cosiddetta esplosione populista.

I dati pubblicati su questo giornale da Enzo Risso sullo scollamento, misurato sulla fiducia decrescente, tra i cittadini e le élite (politiche, ma anche economiche e culturali), segnalano la profondità della malattia che colpisce le classi dirigenti del paese.

Più ancora, tuttavia, dovrebbe attirare l’attenzione un aspetto della fotografia scattata dal Censis: complessivamente, 8 italiani su 10 affermano di non avere voglia di fare sacrifici per cambiare, diventare altro da sé.

È quel che sembrerebbe un effetto di disillusione, un segnale della consapevolezza che il gioco sia truccato e la mobilità sociale bloccata.

Per il filosofo Michael Sandel, il malcontento che nasce dal tradimento delle promesse di ricompensa per gli sforzi individuali, di quelle promesse che condiscono la retorica dell’ascesa sociale per proprio merito, è il terreno su cui il populismo nasce e prospera.

Se è così, è difficile pensare che il ripiegamento rassegnato possa costituire la fine di un ciclo antipolitico.

Piuttosto, possiamo attenderci che la disillusione segni la sconfitta di modelli aspirazionali come quello incarnato da Silvio Berlusconi negli anni d’oro della glorificazione della libera impresa.

Gli unici messaggi oggi capaci di vincere la diffidenza diffusa sono quelli capaci di offrire alle persone conferme e senso d’orgoglio per la propria posizione nel mondo, magari mobilitando l’identità nazionale, culturale o religiosa come supplemento alla carenza di appagamento su versante materiale.

Ma questo è proprio ciò che i partiti populisti sanno fare meglio. 

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