La battaglia infuria sulla piana di Troia, quando il greco Diomede, figlio di Tideo, leva un grido di guerra all’indirizzo di Glauco, figlio di Ippoloco, ricco guerriero della regione di Licia, una penisola dell’Anatolia che si allunga verso Rodi. I cavalli si arrestano, la polvere si deposita e intorno, immaginiamo, cala il silenzio.

E che cosa strana dovette essere questa improvvisa quiete, nel canto sesto dell’Iliade (vv. 119-236), lo stesso, per intenderci, in cui il poeta colloca il bellissimo cameo di Ettore e Andromaca. Una pausa anomala, un vuoto d’aria nel turbine del combattimento: Diomede all’improvviso ferma la sua corsa per rivolgersi a Glauco e chiedergli di dichiarare la propria identità.

Paura di restare foglie

Diomede non è Ulisse e neppure l’incerto Paride Alessandro. Selvaggio l’ha definito il poeta pochi versi prima: incapace di trattenersi, non esita a ferire persino gli dèi come ha fatto nel canto precedente, quanto la sua ferocia si è spinta fino al punto di osare trapassare con la lancia il tenero polso di Afrodite.

Davanti a Glauco invece e al barbaglio d’oro della sua armatura, Diomede non sembra più lui tanta è la diplomazia con cui si prepara al duello. Così al principe venuto dall’oriente per sostenere i troiani in guerra non resta che rivelare la propria stirpe e già dall’inizio si capisce che la storia sarà di quelle indimenticabili. Gli uomini sono come le foglie, dice Glauco a Diomede: il vento le disperde a terra in autunno e poi, di nuovo, la primavera le fa fiorire a miriadi; una stirpe nasce e un’altra si spegne. Quante volte, dopo Glauco, «di foglie il cader fragile», come dirà Pascoli in Novembre, ha battuto il tempo della vita umana, come un martello sull’incudine: «Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie».

Eppure, per il principe venuto dalla Licia, la posta in gioco è ancora più alta della caducità dei mortali, per quanto incredibile possa sembrare. La paura sorda è quella di restar foglie nella stagione di autunno, indistinti in un esercito di identici; nessun nome, nessuna identità, neppure una sosta in quel cono di luce che gli dèi soli potevano regalare. Questa di Omero però non è una storia triste, non ha quel registro grave che all’alternarsi delle foglie avrebbero impresso Virgilio, Pascoli, Ungaretti.

Narrazione e identità

Il bandolo esiste e quel bandolo è il mito. Così, dal tappeto di foglie autunnali Glauco passa senza soluzione di continuità a una narrazione in crescendo che risale su, verso il tempo dei nonni, degli antenati.

Ed ecco Sisifo, l’astuto, figlio di Eolo, da cui discende Glauco, il bisnonno dell’avversario di Diomede, e poi Bellerofonte. Senza macchia, lo definisce il poeta, quindi semplicemente perfetto. Bellerofonte è l’eroe che ha sconfitto la Chimera, un mostro dal muso di leone, il corpo di capra e la coda di drago. Gli si era fatto incontro di gran carriera, come Diomede si preparava a fare con Glauco, soltanto al galoppo di un cavallo alato, Pegaso, anche se questo Glauco non lo dice, forse per omerico understatement.

Pure senza cavallo, Bellerofonte è un personaggio fuori dal comune, bellissimo e dolente: di lui si innamora la moglie di Preto, signore di Argo, e di fronte al suo nobile rifiuto lo accusa di violenza, costringendolo all’esilio. Quando lo scopriamo in viaggio verso la Licia con in mano una lettera sigillata che dovrebbe garantirgli la salvezza e un approdo sicuro, e invece è un ordine d’esecuzione, Bellerofonte è già un eroe protoromantico, un antenato dell’Amleto shakespeariano. Se non bastasse, lo ritroviamo disorientato e triste, mentre si aggira senza meta nella pianura Alea, inviso agli dèi: il primo di tutti i malinconici.

Glauco racconta il mito di Bellerofonte con dovizia di particolari, come se fosse, se fossimo, in un giardino all’imbrunire o sotto un portico ombroso, uno dei posti preferiti dagli antichi per le belle storie. Eppure si è in guerra, eppure tutto intorno si scatena la furia del conflitto più celebre di tutti i tempi. E attraverso la grana del mito, Glauco riannoda anche la storia della sua stirpe, di suo nonno per l’esattezza, e persino di un bisnonno di cui porta il nome, come accade anche ora in molte famiglie.

Ecco la risposta per Diomede: non semplicemente un nome e una patria, ma quel che davvero conta, quel che ti strappa dal letto di foglie e fa di te qualcuno. È il mito, la narrazione di chi si è, di chi si è stati. Non è mai un soliloquio: l’Aiace folle di Sofocle che si aggira senza meta, pronto solo al suicidio, non ricorda più chi è, non sa raccontare, perché l’altro, per lui, semplicemente non esiste più.

Lontano e vicino

Così se anche la parola mito in greco si può tradurre semplicemente con “racconto”, provare davvero a definirlo è tutt’altro che semplice. Sappiamo che il mito non è una storia qualsiasi, è diversa da tutte le altre. È verità e menzogna, Edipo e Frankenstein come diceva Ivan Strenski. È sacro e profano, lontano e tremendamente vicino. È giovinezza imperturbabile, per chiosare una formidabile espressione di Vittorio Sermonti a proposito dell’Eneide.

E così, forse, invece di provare a chiarire una volta per tutte cosa il mito sia, seppellendo tutte le contraddizioni, potremmo rispondere a una domanda diversa: ovvero, dove il mito sia.

Per gli antichi, era quasi ovunque: nelle piazze, nei teatri, nelle notti di luna, in navigazione sul mare, per mostrare la rotta, nei templi, nei palazzi, nei banchetti, nelle stanze segrete degli amanti, persino in forma di favola da raccontare ai bambini per addormentarsi. Praticamente ovunque, ma non dappertutto: il racconto del mito non esiste se si è da soli a narrarlo. Presuppone una forma di relazione, uno “stare insieme”. Non è tanto il suo contenuto o la forma a definirlo, ma il modo, il contesto in cui viene narrato.

Mitologia domestica

Un contesto pubblico, spesso, una performance, ma anche un racconto intimo, a due, come accade a Glauco e Diomede. Del resto, quando Glauco narra la vicenda biografica di uno degli eroi più grandi di tutta la mitologia antica, vuole soprattutto parlare all’Acheo di sé e della sua famiglia, e poco importa in fondo che suo nonno si chiami Bellerofonte e che abbia sconfitto uno dei mostri più terribili di sempre.

La stessa sensazione di prossimità domestica si avverte per esempio quando la poetessa Saffo, cresciuta in un’isola a un passo dalla Troade, raccontandoci che la cosa più bella è ciò che si ama (fr. 16), lega il suo sentimento per la compagna Anattoria, la nostalgia per il lampo brillante dei suoi occhi, all’amore rovinoso di Elena per Paride.

Individuare la presenza del mito in una rete complessa di storie e di vicende umane è relativamente semplice, anche se è all’oggi che stiamo pensando. In fondo, come diceva qualcuno, non c’è bisogno di tanta filosofia, ma solo di un po’ di pratica per riconoscerne la presenza. Impossibile, anche senza una guida, scambiarlo per altro. Eppure non è una pratica semplice: il mito, raccontato, ascoltato, evocato, richiede una qualche assunzione di responsabilità. Non è un narrare senza pensieri, non si applica a qualunque persona e a qualunque racconto: ha un che di solenne, pesante, è insieme radicato e mobile. Ci costringe a nostra volta a capire dove stiamo e persino chi siamo, in questo mondo.

Così del resto l’avevano inteso Glauco e Diomede, così Omero quando decide di fermare la battaglia, di illuminare l’olio violento della guerra con una pennellata di luce da pittore fiammingo. Quando Glauco finisce di raccontare al suo avversario la malinconia di Bellerofonte, sappiamo già che non ci sarà un duello, né quel giorno né mai. I due si riconoscono come affini, scoprono un legame di ospitalità antico: l’uccisore della Chimera annoda le storie delle reciproche famiglie. Ora sanno chi sono, in relazione all’altro.

Scendono dai cavalli, si stringono la mano e si scambiano armature e doni: il ricco Glauco offre un’armatura d’oro e cento buoi, Diomede selvaggio un’armatura di bronzo e nove buoi soltanto.

Il poeta sussurra nell’inciso dei versi: Zeus figlio di Crono gli ha tolto il senno (v. 234), pensando alla dismisura dello scambio, ma in fondo sa bene, lui per primo, che solo così poteva finire.

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