Ha sorpreso molti che, tra tutti i solenni proclami di Donald Trump alla cerimonia d’insediamento, si sia dato particolare risalto a quello che acclarava l’esistenza di soli due generi, il maschio e la femmina. Analogamente, ha sorpreso molti che, su tutte, Matteo Salvini abbia ricalcato una dichiarazione tanto puerile e speciosa.

A seguire l’esempio dell’italianissimo capofila, la politica nostrana s’è profusa poi in una serie di giubilanti richiami a questa rinnovata etica dell’identità sessuale, crisma di una liberatoria reazione allo zelotismo woke e agli eccessi di correttezza politica – quegli eccessi che, a dire di molti esponenti della Lega e non solo, minacciavano l’estinzione del maschio bianco e la fine della fede nel Signore (il quale pure, a quanto pare, quando s’incarnò preferì un altro colore di pelle).

Ossessioni della destra

Quel che sorprende è proprio la pervicace insistenza di questi leader mondiali su temi, come il sesso e il genere, di cui probabilmente a costoro non importa nulla. Temi che, quantunque decisivi per la vita di cospicue minoranze, non sarebbero da includersi nei primissimi punti all’ordine del giorno della politica mondiale.

Ciononostante, credo che questa ossessione per la naturalità dei generi dovrebbe stupire poco – non tanto perché, come si diceva, sia una questione che accalori i nostri devotissimi leader, quanto perché, da che mondo è mondo, la sessualità e la parentela sono i campi nei quali si decide cosa sia normale e cosa anormale. Per questa ragione, la politica, specie quella della destra antipluralista, rivendica il privilegio di stabilire i quarti di normalità delle nostre condotte riproduttive e dei nostri gusti sessuali.

La politica aspira a trasformare quelli che sono comportamenti “normali” in accezione statistica, ossia in termini di reiterazione media, in comportamenti “normali” nel senso di “naturali”, come se la natura ci avesse dotato di criteri morali per giudicare deviante un maschio che veste in gonnella o una donna che s’atteggia a “camionara”. Come se si ignorasse che i gusti in materia di sessualità o le pratiche in fatto di parentela abbiano una natura storica, ossia varino di epoca in epoca, oltreché di contesto geografico in contesto geografico.

Ma la politica antipluralista, va da sé, non si cura affatto di tali ovvietà empiriche. Per inclinazione professionale, s’intestardisce piuttosto nel mobilitare interi cataloghi del disgusto verso specifiche condotte, identità e culture. Così facendo, la politica vuol farsi strumento per riconoscere “chi non siamo”, chi cioè minaccia le nostre abitudini e le nostre tradizioni – benché si sappia un po’ tutti che queste abitudini e queste tradizioni non esistono affatto. L’idea stessa di tradizione viene prodotta per via negativa, vale a dire, come reazione avversa a chi viene accusato di minacciarne l’esistenza.

D’altro canto, nella storia più o meno recente, molti dei grandi tentativi di “inventare” una tradizione condivisa in territori caratterizzati da enormi differenze culturali, come ad esempio la Francia rivoluzionaria o la Germania del Secondo Reich, hanno avuto al centro una politica della normalità – che questa si fondasse su particolari dialetti trasformati in lingua ufficiale o sull’eliminazione dei vecchi sistemi di misura a favore di nuovi e unificati strumenti o, ancora, sull’adozione della proprietà privata individuale come modello unico (e naturale) di possedere.

Il tutto e dappertutto fondato sulla sacrosanta unione del maschio e della femmina nel nome della famiglia procreativa e a maggior gloria degli eserciti nazionali.

Damnatio memoriae

In definitiva, allora, non importa se a Trump & co, come d’altronde a Jeff Bezos e Mark Zuckerberg, interessi poco o nulla della famiglia sedicente naturale o della questione trans, come di tutti i valori cosiddetti tradizionali.

Per quei canali passa infatti l’inestimabile capacità di riscrivere la grammatica di un’intera cultura pubblica, cioè di produrre le categorie di senso con cui i cittadini percepiscono le minacce rivolte alla loro comunità e di conseguenza prendono a sentirsi parte di essa.

Questa consapevolezza dovrebbe attenuare il nostro stupore per l’insistito benché fittizio allarme delle democrazie esecutive circa la trasvalutazione dei valori in materia di buoncostume. E spero la stessa consapevolezza possa esserci di sostegno quando molte agenzie della cultura nazionale e mondiale, un tempo orgogliosamente inguainate d’arcobaleno, prenderanno ad arruolarsi come solleciti crumiri di una nuova damnatio memoriae per rimuovere a colpi di penna tutte le schwa di cui oggi sono ricolmi i loro testi.

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