Morto è un uomo, morto un politico, ma soprattutto è scomparso il capo di un partito. Non una formazione politica qualsiasi e nemmeno un partito personale, come troppo spesso viene detto. L’imprenditore di Arcore era alla testa di un partito privato, di cui era proprietario assoluto e la cui nascita fu decisa e pianificata con le stesse procedure utilizzate per fondare una nuova azienda. Forza Italia si diffuse grazie alla rete di Publitalia 80, ad agenti commerciali che giravano con la valigetta d’ordinanza, i dépliant, il sorriso, il frasario e le mentine per l’alito cattivo. La concezione della politica quale mercato elettorale non è certamente stata una innovazione introdotta dall’imprenditore di Milano 2, ma egli ne è stato l’attuatore nel contesto italiano. Un capo d’azienda che vende un nuovo prodotto, un marchio che è il simbolo di sé stesso, spregiudicato per conquistare nuove posizioni, nuovi elettori, come se acquisisse scaffali nella grande distribuzione.

Un partito del capo e per il capo

Le inversioni politiche, i repentini cambiamenti di posizioni rappresentavano non mancanza di strategia, ma proprio l’esatto contrario, il compendio di un iperrealismo cinico votato esclusivamente alla salvaguardia della Ditta, degli interessi economici al cui altare doveva chinarsi e inchinarsi l’intero apparato politico e partitico, non solo di Forza Italia, ma dell’intero centrodestra. Pur di mitigare le perdite per l’impero economico-finanziario il leader era in grado di passare con naturalezza da un approccio istituzionale ad uno quasi movimentista, dall’indossare il foulard tricolore il giorno della Liberazione, a comporre alleanze elettorali con la Fiamma tricolore, da un profilo che tenta di farsi statista a Partica di mare fino alle dichiarazioni grevi da osteria al parlamento europeo, dalle amazzoni di Gheddafi, alle leggi ad personam.

La discesa in campo fu una straordinaria presa di posizione, un solco segnato, perché era un uomo di parte. Aprì alla destra estrema e al secessionismo leghista, permettendo di strutturare il sistema attorno a un duopolio esito dell’antagonismo o del sostegno alla sua persona. Il fattore B. che sostituì il fattore K., che pure il Cavaliere monetizzò lanciando una sfrenata campagna propagandistica contro i “comunisti”, estinti da trent’anni almeno e pro sistema da almeno mezzo secolo. Ma il messaggio era più importante della sostanza e serviva a definire i contorni del suo prodotto, nel mercato falsamente rivolto a tutti, ma in realtà genuinamente espressione della sua idea di Italia. Una storia italiana, l’idea di paese o, meglio, di società, inviata nelle case di milioni di massaie, come il catalogo Postalmarket, in occasione delle politiche del 2001, quelle dei 61 collegi su 61 vinti in Sicilia.

Il qualunquismo 

Il qualunquismo cifra culturale, tradotto poi in populismo da apprendisti stregoni abbeverati allo sfascio culturale propalato ininterrottamente da tv pudicamente dette commerciali, in realtà veicolo di spazzatura, salvo per le casse private del magnate. Molto meno per quelle dell’erario. Una gestione autocentrata in politica, in economia, nella vita privata, il “ci penso io” celebrato davanti alla platea di (im)prenditori adulanti e plaudenti; il personalismo del leader carismatico tradotto in termini politici per i palati per nulla fini di stuoli di avversari dello stato in qualsivoglia guisa.

Menomale che Silvio c’è, l’inno/jingle del Popolo della libertà nella vittoriosa campagna elettorale del 2008, era in realtà l’apogeo della personalizzazione, della sacralizzazione del Capo, la reiterazione della centralità del leader. Proprio quando Forza Italia si fondeva o, meglio, fagocitava Alleanza nazionale, e la fisicità, il corpo del Re diventava il veicolo per parlare direttamente agli elettori. Ben oltre l’identificazione tra il sovrano e il (suo) popolo, quel presidente operaio, farmacista, pasticcere, che richiamava echi peronisti e li superava.

L’istituzionalizzazione impossibile

La presenza totalizzante del centro, del leader, rappresentò un ottimo viatico per la crescente bi-polarizzazione, che venne saldata e cristallizzata. Il fattore B. e la conseguente dicotomia, divisione in parti opposte e “nemiche” della politica. I fan e gli avversari. Uno schema funzionale alla Casa delle libertà per evocare l’inesistente rischio “comunista” e al centrosinistra per riattivare i propri aderenti allorché in talune fasi la capacità di coinvolgimento si era allentata o spenta.  

Indiscusso e indiscutibile Berlusconi è indubbiamente uno degli ultimi leader carismatici, non popolare ma carisma e in quanto tale sappiamo che i partiti i carismatici sopravvivono, cioè, si istituzionalizzano dopo la dipartita dei rispettivi leader solo in casi eccezionali: ricordiamo il partito gollista dopo De Gaulle e la Lega nord dopo Bossi, la quale è sopravvissuta trovando rifugio nel nord, ideologia superiore persino al suo fondatore e padre.

Quindi la natura del partito è la chiave delle conseguenze politiche anche per Forza Italia: in assenza del leader carismatico, fondatore e proprietario, il partito nelle sue articolazioni organizzative, territoriali e parlamentari potrebbe subire un contraccolpo molto duro. E, quindi, avere anche delle ripercussioni sulla maggioranza parlamentare, il che non vuol dire fine del governo Meloni, ma semplicemente un cambiamento delle dinamiche parlamentari. Forza Italia ha una identità debole, sfuocata rispetto al duopolio destra-sinistra, e sebbene in teoria potrebbe, paradossalmente, proprio per questo, ritagliarsi uno spazio centrale, ma ha comunque bisogno di un leader. Il quale rappresentava un modo per fare o non fare, per aderire o per sabotare, per identificarsi o per distinguersi, ma mai rimanere neutri.

Nessun delfino

Ne discende che il cambiamento all’interno dell’organizzazione non potrà essere graduale, ma solo drastico. Nessuna trasmissione del potere è possibile, per le ragioni indicate, ossia per la natura del partito e del suo leader. Nei partiti carismatici come nei regimi autoritari non c’è transizione. Forza Italia è destinata a scomparire, è già scomparsa per come la conoscevamo.

Alla corte di Versailles i delfini, i predestinati alla successione reale, erano letteralmente allevati, con tutta la formazione e le attenzioni del caso, anche se questo spesso non bastava alla transizione. Nel caso in specie nessuno ha indicato né preparto nessuno che possa dire «meno male che Silvio non c’è».

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