Nietzsche ha scritto che «definibile è soltanto ciò che non ha storia». Un’esagerazione, indubbiamente, ma che contiene più di un briciolo di verità. Se ne rendono conto gli storici delle idee, che sono molto cauti nel proporre definizioni. Essi sanno, infatti, che tutti i movimenti politici (ma si potrebbe dire lo stesso anche di altri fenomeni culturali, nel campo delle arti figurative, o della letteratura) tendono a sottrarsi alle maglie della definizione. C’è sempre qualche aspetto che sfugge, e troppe disgiunzioni di cui tener conto (alcuni x sono y, ma altri no).

Per esempio, la frase «i socialisti sono a favore della proprietà pubblica delle attività produttive» è (o è stata) vera per alcuni socialisti, in alcune circostanze, ma non è vera per tutti i socialisti.

Questo aspetto della storia del pensiero può essere frustrante per chi prende sul serio le idee, e vorrebbe capirne di più, e spinge diverse persone – soprattutto quelle che considerano lo studio, oltre certi limiti ben circoscritti, una perdita di tempo – a rinunciare del tutto. Se non si può mettere in una definizione (o, a voler essere generosi, in un tweet) vuole dire che è una scemenza.

I limiti delle definizioni

L’atteggiamento non è nuovo, ma in una società che ha il culto del “fare” ha acquistato una legittimità intellettuale che prima non aveva. In realtà essere consapevole dei limiti delle definizioni (che sono necessarie in certi contesti, per esempio per una dimostrazione formale) è il primo passo sulla buona strada per chi voglia ragionare su gran parte dei fenomeni umani, sociali, e che hanno una dimensione linguistica (come quelli che appartengono alla sfera della politica, dell’arte o del diritto, e io direi anche dell’economia, ma questo richiederebbe un discorso a parte). Se voglio capire cosa è stato (e cos’è) il socialismo, partire da una definizione è una pessima idea.

Per orientarsi in questo campo, la prima cosa da fare è procurarsi una mappa (ce ne sono di eccellenti, proposte da diversi studiosi, nei rispettivi campi di specializzazione) e poi utilizzarla per ricostruire quella parte del panorama intellettuale che ci interessa. Per esempio, se vogliamo sapere cos’è il liberalismo, è utile avere a disposizione una buona ricognizione del territorio, fissare dei punti di riferimento (Locke, Kant, Mill, Hayek o Rawls andrebbero bene, ma lista potrebbe essere più lunga, o più breve, ma non troppo breve) per cominciare il proprio viaggio di scoperta.

Ben presto, ci rendiamo conto che non è sufficiente guardare agli usi di una sola parola. Oltre a “liberalismo”, dovremo guardare anche “libertà”, “eguaglianza” o “proprietà”. Poi spingerci oltre. Ci sono, ad esempio, diversi regimi di proprietà, e vari modelli di capitalismo, ciascuno dei quali interagisce con differenti concezioni della democrazia. Le combinazioni possibili sono tante, e ciascuna pone problemi specifici, che sono in vario modo influenzati dalle circostanze.

Questo non ci impedisce di proporre generalizzazioni, che possono essere espresse anche nella forma di una definizione (ma aperta, contestabile, quindi non del tipo che useremmo in una dimostrazione formale) e anche di ipotizzare tendenze di carattere globale, che condizionano il modo in cui ciascuno dei termini trova applicazione in concreto.

Ci sono culture nazionali (un liberalismo francese, uno britannico, uno tedesco e uno statunitense, per menzionare solo i casi più importanti), ciascuna con sue caratteristiche peculiari. Queste tendono a cambiare nel corso del tempo, a ibridarsi con altre, di diversa provenienza, e possono (in una sfera pubblica che è molto meno condizionata di un tempo da confini nazionali e linguistici) coagularsi in nuclei di significato vaghi, ma relativamente stabili, che non sono più applicabili solo localmente, ma hanno portata globale.

Questo è ciò che è accaduto all’espressione “neoliberalismo”. Un termine che comincia a circolare negli anni Trenta del secolo scorso, viene ripreso (da Milton Friedman) negli anni della Guerra Fredda, e diviene di uso corrente nel linguaggio comune e in quello di diverse comunità accademiche, su scala globale, a partire dalla fine del secolo. In corrispondenza del successo che le idee e le politiche difese da chi si descriveva come neoliberale hanno dopo la caduta del muro di Berlino.

La storia

Cos’è il neoliberalismo? Un buon punto di partenza lo offre lo storico Quinn Slobodian in un libro pubblicato di recente (Globalists. The End of Empire and the Birth of Neoliberalism, Harvard University Press, Cambridge Mass. 2018). Secondo Slobodian le correnti intellettuali che alimentano questo movimento di pensiero hanno in comune l’idea che sia necessario mettere i mercati al sicuro dall’interferenza di due forze potenzialmente distruttive: la democrazia rappresentativa, nella sua forma novecentesca, e il nazionalismo.

Per farlo, secondo i neoliberali, bisogna “incapsulare” i mercati entro strutture normative (regole giuridiche) che limitino la capacità di maggioranze irrazionali di interferire con ciò che è indispensabile per il funzionamento ottimale di un’economia capitalistica.

Nel suo libro, Slobodian ricostruisce la prima parte dello storia di questo movimento, quella che arriva fino alla fine dei Trenta Gloriosi (il seguito è oggetto di un secondo libro in uscita l’anno prossimo). In questa, che potremmo caratterizzare come la preistoria del neoliberalismo, in primo piano sono soprattutto pensatori europei (come Hayek, Röpke, e vari esponenti meno noti dell’ordoliberalismo e della “scuola austriaca”).

In seguito, possiamo immaginare, il centro dell’azione si trasferisce nei paesi di lingua inglese, e tra i protagonisti troveremmo Milton Friedman, la “scuola di Chicago” e anche le correnti minoritarie, ma non per questo ininfluenti, del libertarismo statunitense). Tra queste diverse tendenze ci sono differenze significative sul piano teorico, ma anche assonanze, che spesso sfumano quando si passa dal livello dei principi a quello delle politiche.

Le critiche

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Perché oggi, dopo decenni di egemonia neoliberale, ci sono tante voci che criticano questa tendenza intellettuale? In estrema sintesi, perché i neoliberali sono disposti a tollerare diseguaglianze significative pur di realizzare lo scopo di mettere al sicuro il capitalismo. Quando le cose vanno bene, o c’è una speranza che migliorino a breve, questo non provoca problemi che non si possano gestire con gli strumenti di politica economica che i neoliberali trovano accettabili (politiche monetarie, sussidi condizionali e limitati nel tempo, disciplina di bilancio). Ma quando le cose vanno male, c’è il rischio che a farne le spese sia la stessa democrazia, che entro la gabbia normativa globale costruita negli anni dell’egemonia neoliberale non riesce a dare risposte adeguate.

Benvenuti nei ruggenti anni Venti del nuovo secolo! L’era della policrisi (Adam Tooze) e della rabbia (Pankaj Mishra). Quindi “neoliberalismo” è oggi il nome di un problema la cui soluzione è vitale per il futuro della democrazia, ma lo stolto non guarda al mondo ma alla parola.

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