È stato uno dei temi dell’estate, per i contrasti nel mondo sindacale e in quello politico in vista della ripresa autunnale: obbligo vaccinale o “green pass” nei luoghi di lavoro. Con l’arrivo di settembre, anche i nodi sono arrivati al pettine. In attesa del prossimo decreto-legge e delle decisioni su questo tema, serve chiarire le posizioni dei diversi attori e capire qual è la situazione in punto di diritto, alla vigilia del nuovo provvedimento.

Sindacati, Confindustria e Salvini

«Il green pass è un modo di aggirare una questione che Parlamento e Governo non sono in grado di risolvere», ha affermato giorni fa il leader della CGIL, Maurizio Landini. «Chiediamo di introdurre la vaccinazione obbligatoria per legge – ha detto Landini, che in precedenza aveva stigmatizzato provvedimenti “calati dall’alto” - perché il green pass crea divisioni nei posti di lavoro. Se poi il pass sarà imposto per lavorare, il tampone dovrà essere gratuito».

Le argomentazioni del sindacalista lasciano perplessi, innanzitutto per la contraddittorietà del chiedere una legge, ma al contempo rifiutare soluzioni imposte dall’alto.

Landini lamenta poi le “divisioni” causate dalla certificazione verde, ma non considera che qualunque obbligo - “green pass” o vaccino - dividerebbe comunque i lavoratori tra quelli che vi assolvono e quelli inadempienti, che invece subiscono conseguenze penalizzanti. La richiesta di tamponi gratis, inoltre, contrasta con il fine della certificazione Covid - dichiarato da esponenti di governo - di spingere le persone a vaccinarsi.

Tuttavia, la gratuità dei tamponi per i lavoratori vede concordi i diversi attori coinvolti - come emerso nell’incontro del 6 settembre scorso tra Confindustria e CGIL, Cisl e UIL - ed ha un fondamento giuridico, come si vedrà in prosieguo.

«Noi da sempre siamo stati per l’obbligo vaccinale – ha detto il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi - ma al momento la politica non sembra trovare una sintesi», quindi «siamo per l’adozione del green pass obbligatorio». «Il governo potrebbe farsi carico del costo dei tamponi, che non può essere a carico delle imprese», ha aggiunto Bonomi. Confindustria, quindi, ha abbandonato l’ipotesi di un obbligo vaccinale introdotto anche mediante il protocollo condiviso tra governo e parti sociali per il contrasto al Covid-19, aggiornato il 6 aprile scorso. La proposta di Bonomi suscitava dubbi sul piano del diritto. La Costituzione prevede che solo il legislatore statale possa imporre un trattamento sanitario, previo bilanciamento tra l’interesse collettivo e quello individuale. Risultava arduo ritenere che questo delicato bilanciamento fosse demandabile a un accordo contrattuale.

Il leader della Lega, Matteo Salvini, invece è contrario all’obbligo di vaccino, ma anche a quello della certificazione verde nei luoghi di lavoro, e non soltanto. Perciò non si comprende quale sia la sua strategia di contrasto al virus.  L’unica cosa certa è che pure lui sarebbe a favore di tamponi gratuiti, se fosse sancito l’obbligo “green pass”.

Esaminando le posizioni sopra esposte, appare singolare che si parli di obbligo di vaccino o di “green pass” come se fossero intercambiabili. Infatti, si tratta di misure che perseguono fini diversi e non sono applicabili alla medesima platea di lavoratori, dati i differenti presupposti di adozione. È necessario, dunque, chiarirne l’inquadramento giuridico.

L’obbligo vaccinale

Secondo quanto affermano gli scienziati, se pure il vaccino non impedisce la trasmissione del virus, comunque con una minore carica virale, tuttavia preserva il vaccinato dalle conseguenze più gravi dell’infezione. Dunque, la vaccinazione risponde a fini di tutela personale, e di riflesso anche altrui. In questo senso, essa può rappresentare una misura di salute e sicurezza nei luoghi lavoro e, come tale, è già imposta a medici e operatori sanitari, in quanto più esposti al rischio di contrarre il Sars-Cov-2, e a propria volta di contagiare. L’inadempimento dell’obbligo vaccinale determina la loro inidoneità alla mansione. Se il governo volesse estendere l’obbligo ad altre professioni, dovrebbe valutare le attività che comportano rischi maggiori da Covid-19, e avrebbe già un’indicazione. Infatti, nell’aprile 2020 l’Inail ha individuato per i lavoratori a costante contatto con il pubblico – ad esempio, quelli «che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/ banconisti» ecc. – un “rischio specifico”, cioè «la presunzione di esposizione professionale» al virus. Vi rientrerebbe anche chi opera nei luoghi ove il “green pass” è condizione per l’accesso del pubblico. Invece, per altre categorie di lavoratori, non esposti a un rischio superiore rispetto al resto della popolazione, un obbligo vaccinale sarebbe difficilmente giustificabile sul piano costituzionale.

Se si arrivasse a imporre il vaccino per alcune professioni, sarebbe meglio adottare modalità di implementazione differenti da quelle previste per gli operatori sanitari. Per questi ultimi, la complessità del meccanismo di accertamento, con scambi di informazioni tra soggetti diversi mediante una procedura farraginosa, ha favorito uno “scarica-barile” di responsabilità nell’adozione degli atti di sospensione dal lavoro: dopo oltre cinque mesi dall’introduzione dell’obbligo, alcuni non vaccinati continuano a lavorare. L’avvenuta vaccinazione potrebbe ad esempio essere verificata tramite “green pass”, ma senza l’opzione del tampone.

Il “green pass” nei luoghi di lavoro

L’imposizione del “green pass” nei luoghi di lavoro avrebbe finalità diverse dall’obbligo vaccinale, e analoghe a quelle perseguite negli altri casi in cui il pass è già prescritto: contenere la circolazione del virus, inducendo al contempo a vaccinarsi. La certificazione Covid non potrebbe configurarsi come una delle misure di sicurezza sul lavoro, prevalentemente preordinate alla tutela dello stesso lavoratore: la previsione dell’opzione di un tampone è a esclusivo beneficio di terze persone. 

L’inadempimento dell’obbligo comporterebbe per il lavoratore le stesse conseguenze previste per il personale scolastico. Al datore di lavoro spetterebbe un certo sforzo organizzativo per i controlli, specie nelle aziende di maggiori dimensioni. Al riguardo, si rammenta che a causa delle difficoltà rilevate dai presidi – la scuola è stato il primo posto di lavoro ove si è imposta la certificazione verde – il ministero dell’Istruzione ha elaborato in via d’urgenza una modalità di verifica del pass via computer, alternativa a quella ordinaria mediante l’App VerificaC19.

Su queste pagine si è scritto che la prescrizione del “green pass” a chi quotidianamente deve entrare nel luogo di lavoro significa imporgli in via indiretta un obbligo vaccinale, poiché il costo di un tampone ogni 48 ore, in alternativa alla vaccinazione, costituirebbe un onere troppo gravoso. Quest’obiezione sarebbe superata dalla previsione di tamponi gratuiti per i lavoratori, su cui si è visto che le parti paiono concordare. E, come rilevato dal costituzionalista Michele Ainis, ciò permetterebbe di non discriminare in base al reddito chi non possa sostenerne la spesa per esercitare un diritto fondamentale, qual è quello al lavoro. Tuttavia, sorge un altro dubbio. I tamponi gratuiti, oltre a dissuadere dal vaccinarsi, potrebbero creare discriminazioni ulteriori: l’esito negativo del tampone gratis consentirebbe al lavoratore anche di frequentare ristoranti, cinema ecc., a differenza di chi, invece, non lavora e deve pagarsi il tampone per accedervi.

Il tema non è agevole, e nel dibattito pubblico se ne parla talora con troppa disinvoltura, nonchè con una superficialità dannosa. Il governo, dal canto suo, con la frammentazione nell’adozione delle misure nei luoghi di lavoro, mediante decreti a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro, rischia di creare conflitti tra chi vi è assoggettato e chi, invece, ne è escluso (Ainis), senza che ne sia chiara la “ratio”. Questione non solo d’eguaglianza, ma anche – e come sempre – di trasparenza.

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