Nelle analisi sulle vicende di Bucha e delle altre stragi di civili in Ucraina, non sono stati ancora ampiamente sottolineati i profili inquietanti della «responsabilità dei comandanti militari». Non è corretto ricondurre la sola responsabilità a Putin, perché, anche ai sensi dello statuto della Corte penale internazionale, è in primo luogo ai capi militari che incombono precisi obblighi perché la condotta della guerra si conformi alle norme del diritto internazionale umanitario.

Soprattutto nell’esercizio del controllo sui propri subordinati e nell’evitare il coinvolgimento di vittime civili nella violenza bellica. Lo statuto afferma anche che non vi è esonero della responsabilità penale nel caso di un ordine ricevuto dal governo o da altri superiori la cui esecuzione sia «manifestamente illegittima», come nel caso del genocidio e dei crimini contro l’umanità.

Gli orrori della guerra

AP Photo/Wladyslaw Musiienko

Mentre si stanno ancora identificando le 360 vittime dell’eccidio di Bucha, il sindaco di Makariv, nei pressi di Kiev, ha denunciato altre esecuzioni e violenze commesse nei confronti di altre 133 vittime civili sinora individuate.

E, il giorno prima, un missile russo Tochka, uno degli ignobili ordigni delle “munizioni a grappolo”, ha causato almeno 50 vittime civili nella stazione ferroviaria di Kramatorsk, nella regione del Donbass. Tutti sapevano che lì si erano ammassate le famiglie per allontanarsi dalla guerra, eppure chi ha lanciato quell’ordigno non se ne è preoccupato.

Non vale nemmeno più la pena soffermarsi sull’ennesima negazione della realtà sulla responsabilità di questi episodi: in ogni caso le indagini indipendenti della Corte penale internazionale sapranno accertare da quale parte sono stati originati tanto i missili quanto le altre barbare violenze commesse nei confronti dei civili.

L’analisi del campo di battaglia ci dice per ora questo: non c’è stato solo l’eccidio di Bucha, sono tante le conferme di un’azione sistematica di attacchi diretti contro i civili, cui non sono stati risparmiati trattamenti disumani, oltraggi e violenze, anche in danno di anziani, donne e bambini. Bucha, Borodyanka, Kyiv, Chernihiv, Sum, Kramastorsk e ora Makariv sono nomi destinati ad essere ricordati come città-martire, in cui un occupante costretto a ritirarsi ha voluto lasciare i segni ignobili della sua rabbia, compiendo i più vili dei crimini, inclusi gli stupri e le torture, in danno di civili inermi.

Il procuratore generale ucraino ha denunciato di avere acquisito documentazione per oltre 5mila casi di crimini di guerra, tra questi figurano anche le uccisioni di 176 bambini, e il ferimento di altri 324 minori.

Anche l’esodo forzato nei vicini paesi europei riguarderebbe già 4.4 milioni di profughi secondo l’Unhcr, ma si parla anche di vere e proprie deportazioni di civili dal Donbass in territorio russo, sotto il pretesto di facilitarli in un corridoio umanitario.

La responsabilità dei comandanti

Su questi drammatici scenari c’è tuttavia un aspetto che non è stato ancora ampiamente sottolineato, che invece meriterebbe maggiore esecrazione anche dei media, dei social e a livello di comunità internazionale: si tratta del tema della «responsabilità dei comandanti militari».

Certamente non vanno sminuite le responsabilità del leader numero uno, Putin, la cui narrazione sulla “campagna di denazificazione” contro gli ucraini se non rappresenta una istigazione al genocidio - termine che certamente va evocato con grande cautela per rispetto dei suoi riferimenti storici più inquietanti - vi si avvicina molto: nei bombardamenti, nelle stragi sistematiche e nell’esodo forzato che coinvolgono le vittime civili è difficile non cogliere l’intento cruento di colpire un popolo che si riconosce, suo malgrado, liberamente in una precisa identità nazionale.

Ciò che emerge, comunque, e che anche per questi non meno gravi “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità”, secondo la terminologia dello statuto della Corte penale internazionale, non è sufficiente ricondurre la sola responsabilità a Putin, perché questa va estesa sicuramente alla nomenclatura più prossima che lo continua a sostenere, ma anche alla catena di comando di tutti i responsabili militari, dallo stato maggiore ai comandanti militari dei livelli operativi.

Sono i comandanti militari i primi diretti responsabili della condotta della guerra, e su di loro incombono precise responsabilità. Nonostante siano tanti gli episodi che nella storia dimostrino quanto di disumano ci sia nelle guerre, c’è comunque un profilo morale che ha cercato di caratterizzare ogni “esercito” che ha voluto definirsi tale per distinguersi alle orde barbariche e dalle milizie mercenarie.

Persino nel Codice di Hammurabi (1810- 1750 a.C.), il re di Babilonia aveva imposto il precetto: «Io stabilisco queste regole per evitare che il forte infierisca sul debole». E anche nell’Arte della guerra, nel VI secolo a. C., Sun Tzu aveva sostenuto che tra i doveri di un comandante c’è quello di assicurarsi che i suoi subordinati si comportino in modo civile durante un conflitto armato.  Si può anche affermare che l’origine stessa dell’idea dei primi processi sui crimini di guerra affonda proprio su questi principi.

Nel 1474 Peter von Hagenbach fu condannato alla decapitazione da un tribunale ad hoc del Sacro Romano Impero per le atrocità commesse dalla sua soldataglia durante l'occupazione di Breisach, dato che «egli come cavaliere era ritenuto avere il dovere odi prevenire». In epoca più recente, a partire dall’ ‘800, ogni “comandante” che si fosse formato nelle scuole militari di matrice europea, incluse quelle russe e americane, ha cominciato ad avere come riferimento e guida nella condotta delle azioni di guerra il manuale di Oxford o il Codice Lieber, istruzioni militari che enunciavano i limiti posti dal diritto internazionale umanitario sviluppatosi con le Convenzioni dell’Aja e di Ginevra.

La dottrina della “responsabilità di comando”

Ed è proprio  in questi contesti che si è iniziato a parlare di una vera e propria  “dottrina della responsabilità di comando”, specie dopo le  Convenzioni dell'Aia IV (1907) e X (1907). Una sua prima applicazione fu fatta alla fine della Prima guerra mondiale dalla Corte Suprema Tedesca di Lipsia  che condannò Emil Muller.

Il caso riguardò un avvocato divenuto responsabile di un campo di prigionia, in cui circa 1000 prigionieri erano stati lasciati in preda alle violenze e alle malattie, tanto che molti di essi vi perirono per le conseguenze.

Nella seconda guerra mondiale, uno dei casi emblematici ha riguardato pure il “processo Yamashita”, in cui si affermò un principio più esteso della responsabilità di comando, confermata nella forma “omissiva”, nel caso dell’ammiraglio giapponese che fu condannato dalla Commissione militare americana di Manila (1945) per non avere esercitato il dovuto controllo sulle atrocità commesse nelle Filippine dai suoi soldati.

Il percorso della definizione normativa e giurisprudenziale si andava dunque compiendo attraverso le tappe delle giurisdizioni dei Tribunali di Norimberga e Tokio, ma anche attraverso i meno conosciuti processi nazionali condotti nelle varie nazioni europee, tra cui la stessa Germania e l’Italia.

Quest’ultima ha anzi vissuto i controversi procedimenti davanti alla giustizia militare in cui al centro delle questioni giuridiche più rilevanti vi sono state proprio la responsabilità dei comandanti militari e la rilevanza dell’ordine superiore, a partire dal “processo Kappler” per la rappresaglia delle Fosse Ardeatine e dalle altre gravissime stragi di civili, tra cui quelle di Sant'Anna di Stazzema e Marzabotto, per ricordarne solo alcune,  per arrivare agli ultimi epiloghi dei processi del c.d. “Armadio della vergogna” (nota: dal nome del mirabile libro di Franco Giustolisi che diede risalto all’iniziativa del procuratore militare Intelisano; questi nel 1994 aveva ritrovato una folta raccolta di denunce e testimonianze su crimini di guerra, tenute per diverso tempo accantonate per “ragioni di stato” negli uffici giudiziari militari).

Le guerre contemporanee hanno poi segnato una ulteriore deriva, in cui sono stati emblematici i processi che hanno accertato le responsabilità dei capi politici e militari davanti ai Tribunali della ex Jugoslavia, ad esempio per il genocidio degli 8mila musulmani bosniaci trucidati a Srebrenica, del Ruanda, per il genocidio dei tutsi e degli hutu, come davanti alla stessa Corte penale internazionale, in cui tra le condanne emesse spicca quella del capo militare Thomas Lubanga Dyilo, responsabile dei crimini di guerra commessi dalle sue milizie nella Repubblica Democratica del Congo  nel corso del 2002 e del 2003, tra cui figura anche il reclutamento forzato e l’arruolamento di bambini soldato.

In definitiva, nonostante la progressiva evoluzione dei principi umanitari affermati anche con il percorso dei valori democratici e del sistema di tutela dei diritti umani, il rispetto del nemico soccombente e della popolazione civile è una regola  che purtroppo è andata via via persa, dando spazio ad una forte ideologizzazione, alla radicalizzazione e all’imbarbarimento che hanno caratterizzato le atrocità dei conflitti post-coloniali, del Vietnam, dell’Iraq e della Siria, in generale delle guerre mediorientali, del terrorismo jihadista, e dei più attuali conflitti interetnici del continente africano.

Tra Convenzioni di Ginevra e Statuto della Corte penale internazionale

In questo scenario, ritornando dunque alle responsabilità da accertare sugli orrori della guerra in Ucraina, è dunque necessario richiamare l’attenzione sul quadro giuridico attualissimo del diritto internazionale dei conflitti armati e del diritto internazionale penale che delinea la “dottrina della responsabilità da comando”. A oggi sono due i principali strumenti giuridici su cui si poggia tale istituto: il protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 1977 e lo Statuto della Corte penale internazionale del 1998. 

Nel I protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra, all’articolo 86, paragrafo 2, si stabilisce che il fatto che una violazione sia stata commessa da un subordinato non esonera i suoi superiori da responsabilità «se sapevano o avevano informazioni» che stava commettendo o stava per commettere tale violazione e «non hanno adottato tutte le misure possibili in loro potere per prevenire o reprimere la violazione».

In base all’articolo 87, inoltre, letteralmente viene fatto obbligo ai Comandanti militari di: conoscere e comprendere le obbligazioni che sono loro imposte dal diritto internazionale umanitario (Diu); assicurarsi che anche i subordinati conoscano e comprendano tali obblighi; condurre le operazioni in conformità con il Diu; fare tutto ciò che è in loro potere per prevenire la commissione di violazioni del Diu da parte dei loro subordinati, e in caso di violazioni, promuovere contro gli autori le azioni disciplinari e penali del caso.

Sono seguite poi le già ricordate esperienze dei tribunali per la ex Jugoslavia e del Ruanda (entrambi inquadravano in maniera identica la “responsabilità dei comandanti” all’articolo 7) e nel 1998 si è arrivati alla norma di riferimento più attuale, quella dello Statuto della Corte penale internazionale, che ha voluto tipicizzarne la nozione secondo alcuni canoni ben precisi. 

In primo luogo, all’articolo 25, Responsabilità penale individuale, si fa riferimento alla “responsabilità attiva” anche di chi “incoraggia” (oltre di chi “ordina o sollecita”) la perpetrazione di un crimine perseguibile dalla Corte. Vale anche sul punto sottolineare che l’esperienza dei primi processi della Corte ha portato a configurare altre ipotesi più ampie di imputazione di responsabilità diretta dei comandanti nei particolari istituti dell’autoria, della co-autoria e dell’autoria mediata, figure tipiche della giurisprudenza derivata dal Common Law in cui si articolano le responsabilità dei vari compartecipi di un criminal intent, oppure di una cospiracy, o anche di una joint criminal enterprise.

Ma è l’art. 28 Responsabilità dei capi militari e di altri superiori gerarchici che riconduce ai comandanti anche una forma più estesa di responsabilità omissiva per il «mancato controllo». Secondo le previsioni dello Statuto, questa è configurabile quando il capo militare: a) «sapeva, o, date le circostanze, avrebbe dovuto sapere che le forze commettevano o stavano per commettere tali crimini»; oppure, b) «non ha preso le misure necessarie e ragionevoli in suo potere per impedire o reprimere l’esecuzione (dei crimini) o per sottoporre la questione alle autorità competenti ai fini d’inchiesta e di azioni giudiziarie». Il para 2 dell’art.28 precisa poi che la responsabilità si configura anche nella condotta del capo militare che non sia intervenuto «essendo a conoscenza, o trascurando deliberatamente di tenere conto di informazioni che indicavano chiaramente che i subordinati commettevano o stavano per commettere tali crimini».

La norma di chiusura è poi l’articolo 33 Ordine del superiore gerarchico e ordine di legge, laddove si sancisce il principio che non vi è esonero della responsabilità penale nel caso di un ordine ricevuto dal governo o da altri superiori la cui esecuzione sia “manifestamente illegittima”, come nel caso del genocidio e dei crimini contro l’umanità.

La concreta perseguibilità dei comandanti “criminali di guerra”

E a proposito della concreta perseguibilità dei comandanti militari russi, vale precisare che per questi reati non operano né prescrizioni, né immunità funzionali, anzi nel caso siano catturati, in quanto giudicabili come “criminali di guerra” perderanno lo status di “prigionieri di guerra”, che altrimenti avrebbe loro assicurato una protezione ai sensi delle Convenzioni di Ginevra.

Pertanto potranno essere processati direttamente dalla giustizia ucraina, i cui apparati sono pienamente efficienti come dimostra l’attivismo della procura generale, o dalla Corte penale internazionale, posto che l’Ucraina ha accettato la sua giurisdizione e in atto vi è una stretta cooperazione tra le rispettive procure.

Anche Eurojust ha già sensibilizzato tutte le procure europee a procedere nella raccolta della documentazione probatoria che potrà acquisirsi attraverso filmati, fotografie e testimonianze dirette dei profughi ucraini giunti nei vari paesi europei. Sul sito della Corte penale internazionale possono inoltre essere direttamente contattati gli investigatori a questo link, mentre l’Ucraina ha messo a disposizione per ogni denuncia, segnalazione o testimonianza un link.

Ai comandanti della Federazione russa dovrà essere chiaro che la loro condotta li porterà a rispondere delle atrocità commesse davanti alla giustizia penale internazionale, ma soprattutto di fronte alla coscienza dell’umanità intera che avrà bene a mente le immagini dei loro orrori commessi in Ucraina.

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