Siamo immersi in un sistema di potere che non si limita a controllare l’informazione, ma plasma attivamente la coscienza collettiva attraverso architetture presentate come inevitabili. Musk e Zuckerberg non hanno più bisogno di nascondersi dietro la retorica della neutralità tecnologica. In cambio di visibilità e influenza, abbiamo pensato fosse meglio stare sui social con una voce critica, piuttosto che fuori. Legittimando quel sistema che a parole volevamo smantellare, abbiamo scelto una sottomissione volontaria. Riconoscerlo è il primo passo per resistere
I social non sono mai stati neutrali. Non si sono mai limitati a mediare la comunicazione come da proclami, ma hanno rimodellato - uno scroll alla volta - il modo stesso in cui pensiamo la realtà. È il tecnofeudalesimo digitale, concetto teorizzato da Yanis Varoufakis, sviluppato da Evgeny Morozov e sistematizzato da Cédric Durand.
Non una distopia futura, ma il presente in cui siamo già immersi: un sistema di potere che non si limita a controllare l’informazione, ma plasma attivamente la coscienza collettiva attraverso architetture tecnologiche presentate come neutrali e inevitabili. Non un’aberrazione del sistema o una svolta imprevista, quindi, ma la sua più compiuta realizzazione.
Addio neutralità tecnologica
Le piattaforme social hanno sempre operato secondo questa logica. La presenza all’insediamento trumpiano di Elon Musk, Mark Zuckerberg e degli altri tech-oligarchi è solo il momento in cui il potere si mette in scena e si fa fotografia. Non hanno più bisogno di nascondersi dietro la retorica della neutralità tecnologica: il loro controllo sulla costruzione del pensabile e dell’impensabile è oramai così consolidato da poter essere esibito.
Va riconosciuto, con spietata onestà, che noi - pensatori, giornalisti, accademici, analisti, quella che un tempo si sarebbe chiamata classe intellettuale, più o meno scalcagnata - abbiamo accettato questo sistema perché ci ha fornito l’accesso a un potere appetibile: la capacità di diffondere idee, di plasmare opinioni, di costruire facilmente un pubblico attraverso i loro spazi.
Era un patto faustiano, e lo sapevamo. In cambio di visibilità e influenza abbiamo chiuso un occhio (a volte due) sulle fondamenta marcescenti dell’edificio. Non ci siamo raccontati la favola della democratizzazione, non siamo mai stati così naïf. Abbiamo fatto un calcolo più cinico: meglio essere dentro con una voce critica che fuori, con poca o nessuna voce.
E così, articolo dopo articolo, post dopo post, abbiamo contribuito a legittimare quel sistema che a parole intendevamo smantellare. Il tecnofeudalesimo ci ha trasformato da sudditi inconsapevoli a vassalli consenzienti.
Servitù volontaria
Abbiamo sempre saputo che questa architettura del controllo non è neutrale: è stata progettata per frammentare il discorso pubblico in bolle algoritmiche, trasformare il dibattito in scontro, ridurre la complessità del pensiero alla logica binaria del like. La radicalizzazione del discorso pubblico non è un effetto collaterale, ma una caratteristica strutturale, ovvia, di piattaforme progettate per massimizzare l’engagement attraverso la polarizzazione.
E quella che stiamo vivendo non è tanto una crisi della democrazia - che è in crisi di default, avendo bisogno vitale di conflitti, contrasti, pesi e contrappesi per vivere - quanto una trasformazione profonda della sfera pubblica.
La cittadinanza digitale è una forma di servitù volontaria (che già La Boétie nel Cinquecento aveva identificato come il più potente strumento di dominio): una sottomissione che si presenta come scelta, dove la partecipazione stessa è subordinata alle logiche del profitto e del controllo.
Riconoscere questa dimensione è essenziale per immaginare forme di resistenza che vadano oltre la sterile critica del potere tecnocratico.
superare la dipendenza psicologica
In questo contesto, è il concetto stesso di resistenza a dover essere ripensato. Come sottolinea Shoshana Zuboff, non si tratta solo di proteggersi dalla raccolta dei dati, ma di contrastare un sistema che trasforma l’esperienza umana in materia prima per la predizione e il controllo comportamentale. La resistenza, allora, deve operare simultaneamente su più livelli: tecnologico, sociale, cognitivo.
Le alternative tecniche esistono già: piattaforme decentralizzate, protocolli open source, sistemi di comunicazione autonomi e interconnessi. Ma la loro limitata adozione rivela come il problema non sia principalmente tecnico. Il vero ostacolo è la dipendenza psicologica e sociale che hanno creato le piattaforme dominanti.
La via d’uscita richiede quindi un doppio movimento: da un lato, lo sviluppo di infrastrutture tecniche alternative che incarnino principi di autonomia e controllo democratico (e se non in Europa, dove?); dall’altro, la coltivazione di nuove forme di ecologia mentale, che ci permettano di abitare lo spazio digitale senza esserne colonizzati.
Non si tratta di rifiutare la tecnologia, ma di reimmaginarla. In gioco non c’è solo il futuro dello stato di diritto, ma la possibilità stessa di mantenere forme di soggettività autonoma.
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