C’è un elemento che va sottolineato nei comportamenti con cui Donald Trump entra nel 2026: è la costruzione ideologica di odio che pervade l’appello ai nazionalisti sovranisti di tutto il mondo a distaccarsi dall’imbelle, decadente, logora Europa, un odio indiscriminato in ogni direzione, traducibile sia in isolazionismo arroccato in fortezza, sia in globalismo tecnoavvenirista insofferente alle frontiere, alle regole, all’eguaglianza, agli stati.

Nel tentativo di demolire le illusioni “buoniste” dell’illuminismo cosmopolita europeo, l’illiberalismo antidemocratico trumpiano ribadisce che la politica è fondata sulla forza, sull’arbitrio e sulla violenza, coprendosi di una coltre ideologica che dalla presupposizione di una natura umana intrinsecamente malvagia deriva la pulsione degli esseri umani a divaricarsi in fronti irrimediabilmente contrapposti, cementati da una religione invocante il Dio delle armi, animati dalla dicotomia amico/nemico, carichi per l’appunto di odio.

Io penso che queste deliranti costruzioni ideologiche vadano prese molto sul serio, affrontando a viso aperto la sfida “antropologica” che esse contengono, il che significa risalire a Hobbes e a Machiavelli e perfino a Sant’Agostino (come faccio nel mio Nonostante Hobbes).

Nei primi secoli del cristianesimo ci fu una discussione che vide Pelagio sostenere, a differenza di Sant’Agostino, che il peccato di Adamo fosse puramente personale, non trasmesso alle generazioni successive, e che, di conseguenza, ogni uomo nascesse con potenzialità incorrotte.

Il filosofo Paul Ricoeur rintraccia una forma di pelagianesimo perfino in Kant, il quale, a partire dall’attribuzione antropologica all’essere umano della «libertà di scegliersi», nega al male un’esistenza autonoma, perché esso consisterebbe «in un rovesciamento della priorità».

In Kant «per quanto sia radicale il male … esso non occupa il posto dell’originario, che è quello della disposizione al bene, … il male non può fare che noi cessiamo di essere aperti all’appello della coscienza. Il male resta contingente, anche se da sempre qui. Questo paradosso potrebbe essere chiamato quello della quasi-natura del male».

Il dogma della malvagità naturale

Lungi da me la pretesa di sostenere una discussione teologica. Voglio soltanto mettere in evidenza come, passando attraverso la cupa antropologia di Machiavelli e di Hobbes, il dogma della distruttività innata e della malvagità naturale dell’uomo è rimasto uno dei cardini della cultura occidentale. Machiavelli per il quale la «mala contentezza» e la «malignità» sono endemiche negli esseri umani, mossi da appetiti insaziabili e pertanto solo da ingratitudine, volubilità, simulazione, vigliaccheria, cupidigia, tutte cose che rendono la morale non più universalmente impegnativa e giustificano la scissione tra etica e politica.

Hobbes per il quale la cupiditas è il motore dell’essere umano, in quanto «la competizione per le ricchezze, l’onore, il comando o per gli altri poteri, inclina alla contesa, all’inimicizia e alla guerra, perché la via che porta un competitore al conseguimento del proprio desiderio è quella di uccidere, sottomettere, soppiantare o respingere l’altro».

Eric Fromm

Eric Fromm è il pensatore che, insieme a Marcuse, più ha contestato questi dogmi. Correlando l’energia distruttiva al blocco dell’espressione spontanea delle capacità emotive, fisiche e intellettuali dell’essere umano, Fromm è giunto alla conclusione che quando «la tendenza della vita a crescere, a essere vissuta, è minacciata, l’energia così bloccata subisce un processo di alterazione» in termini distruttivi, palesando, pertanto, che la distruttività non è originaria e che essa «è il risultato della vita non vissuta». Ne segue che l’uomo, intrinsecamente relazionale, «non è necessariamente malvagio, ma malvagio diviene soltanto se mancano le adatte condizioni» alla sua crescita e alla sua fioritura.

Quindi, con un’espressione che riecheggia singolarmente quella usata da Ricoeur per Kant, per Fromm «il male non ha esistenza indipendente, esso consiste nell’assenza del bene, è il risultato del fallimento nel realizzare la vita».

Come all’immagine profondamente pessimista della natura umana corrisponde un’immagine autoritaria dello Stato, del diritto e della società, così l’alternativa sostenuta da Fromm e, in modi diversi, da Marcuse richiede una rinnovata alfabetizzazione politica verso l’universalizzazione della condizione umana in termini di valori quali “dignità” e “riconoscimento”, perché entrambi enfatizzano le energie creative e riconoscono nell’Eros una componente fondamentale della democrazia.

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