In Elementi di politica, nel 1925,  Benedetto Croce scriveva che la modesta attenzione da lui riservata fino a quel momento alla concezione liberale aveva certamente creato disorientamento fra i suoi lettori.

È infatti a partire da quegli anni, da quando cioè avvertì l’esigenza di condannare il carattere totalitario del fascismo, che Croce elaborò la sua visione del liberalismo, inteso come una visione totale del mondo e della realtà. Come è stato rilevato da Giovanni Sartori, una teoria metapolitica della libertà non è però di per sé una teoria del liberalismo, perché quando la libertà stessa diviene un principio universale ci si può trovare di fronte a un concetto indistinto.

Si può anche pensare al fine della libertà senza tener conto dei mezzi, ma così «si esibisce il facile e si sottrae il difficile», commenta Sartori. Tutti i partiti, per Croce, «debbono di necessità discordare e battagliare fra loro (…). La libertà non è un partito ma è la premessa per la vita sana e morale di tutti i partiti».

Ampia definizione

Ci si trova dinnanzi a una definizione talmente larga del liberalismo, commenta Nicola Matteucci, da consentire a troppi di sentirsi liberali. Ecco perché Croce poteva sostenere ad esempio che l’idea liberale aveva un legame contingente ma non necessario con la proprietà privata, in quanto la dimensione economica del liberismo doveva essere subordinata all’istanza morale del liberalismo.

Nella celebre polemica su liberalismo e liberismo, Croce difendeva quindi una concezione ideale della libertà, in cui la sfera economica risultava solo strumentale. Negava in tal modo, come scrisse Luigi Einaudi, «il valore più schiettamente politico e morale» del liberalismo.

La concezione crociana, secondo cui storicismo immanentistico e liberalismo sono come inscritti l’uno nell’altro non ci offre molti elementi per comprendere gli sviluppi complessi del pensiero liberale, che si è poi affermato in modo decisamente più consistente proprio in quei paesi in cui lo storicismo immanentistico non costituiva l’orientamento prevalente. L’empirismo inglese, il pragmatismo americano, il falsificazionismo di Karl Popper, hanno infatti offerto il terreno ideale per lasciar fiorire le istituzioni liberali.

Si comprende allora come la riluttanza a confrontarsi con le scienze sociali abbia posto il liberalismo crociano in una dimensione ideale  che, dopo l’opposizione morale al fascismo, non ha inciso sulla realtà politica. A tal proposito, Norberto Bobbio scrisse, forse con eccessiva severità, che «quando venne il momento della ricostruzione (…) la filosofia della libertà tacque».

Il rapporto complesso dei giovani con Croce è testimoniato da Guido Calogero, che ricordava come i suoi libri fossero stati, durante il fascismo, «la lettura segreta della migliore gioventù italiana». Quanti si avvicinarono a quelle pagine, prosegue Calogero, furono vaccinati contro quella “pia illusione” del corporativismo di sinistra, da cui molti transitarono verso il marxismo. Se tali contagi erano scongiurati, non era possibile però condividere del tutto l’opposizione di Croce nei confronti dell’azionismo e del liberalsocialismo.  

Un modello regolativo  

La risposta di Croce alla tragedia europea non è certamente traducibile nel linguaggio dell’ingegneria costituzionale, ma rappresentò una sponda per quanti si opposero al totalitarismo. Nel tempo della crisi della coscienza europea, quando i totalitarismi annullavano le basi stesse dello stato di diritto, la libertà crociana divenne per molti un modello regolativo, più che una guida per l’agire politico concreto. Dinnanzi alle variegate forme del “tradimento dei chierici”, Croce aveva liberato la morale dalla  subalternità nei confronti dello stato, per restituirle piena autonomia.

Il suo intervento al Congresso filosofico di Oxford, nel settembre del 1930, esprime pienamente questo sentire. Nella relazione oxfordiana, Antistoricismo, si coglie, come ha scritto Gennaro Sasso, la difesa della tradizione storica e la diagnosi della decadenza, identificata con l’antistoricismo che si presentava, secondo Croce, in due forme.

La prima si esprimeva nel futurismo, che idoleggiava un futuro senza passato. La seconda si manifestava in una ricerca dell’assoluto, che negava il senso stesso del divenire storico. Ricordando la «generosa barbarie» che aveva segnato importanti momenti della storia, e riaffermando la sua scelta di rimanere sul posto di combattimento a difesa della libertà, commentava con ironia la tesi secondo cui il suo amore per Vico avrebbe dovuto condurlo a riconoscere la positività della rinnovata barbarie del fascismo. 

Alla luce di queste considerazioni, si comprende come lo storicismo crociano prenda le distanze da ogni giustificazionismo provvidenzialistico. La tensione morale che anima la sua ricerca rivela allora una evidente eredità kantiana, come ha sostenuto Sasso anche se, in questa aspirazione al “dover essere”, non si assiste mai a una fuga dalla concretezza storica.

Per Croce, infatti, lo stato è realtà storica e concreta ed è legato all’esercizio della forza. La forza è presente tanto nei regimi liberali quanto in quelli dispotici, ma se nei primi è al sevizio della legge, nei secondi è esercitata in modo autocratico. La riduzione crociana dello stato a forza non è in alcun modo una concessione all’uso della violenza in politica, ma una presa di distanza dalla concezione etica dello stato elaborata da Hegel e ripresa poi da Gentile.

Attribuire allo stato una sostanza etica condurrebbe infatti, secondo Croce, a una «concezione governativa della morale». L’esaltazione hegeliana dello stato, accolta da Spaventa e poi da Gentile, aveva  portato, egli scrive, a porre l’istituzione statale «al fastigio sul quale Kant aveva collocato la legge morale, facendone oggetto della stessa reverenza e venerazione». 

Il ruolo della moralità 

La moralità assume così, nella riflessione crociana, durante gli anni del fascismo, un ruolo sempre più incisivo. Se nella Filosofia della pratica il dominio della moralità si esercitava entro le vicende della nostra vita, dal momento che «non ha imperio alcuno sulle forme e categorie dello spirito», nella Storia d’Europa tale dominio si estende. Ecco perché si può sostenere, come ha scritto in proposito Matteucci, che il liberalismo crociano si esprime in una filosofia totale e in un’etica della libertà, influenzata «più dal liberale Kant che dall’autoritario Hegel».

Nel giugno del 1944, su Rinascita, Palmiro Togliatti accusava Croce di aver avuto la libertà di presentarsi come il «campione della lotta contro il marxismo (…) all’ombra del littorio», in cambio di poter scagliare «ogni tanto una timida frecciatina contro il regime». Avrebbe operato in una sorta di regime di monopolio, dal momento che socialisti e comunisti erano perseguitati. Con il loro ritorno non sarebbe più stato possibile che le “merci avariate” diffuse da Croce circolassero ancora.

Nella sua risposta, Croce, pur non nascondendo il suo disagio, non mancò di ironizzare sulle critiche mossegli. Qualora le accuse di Togliatti fossero state ritenute fondate, replicò, sarebbe stato auspicabile deferirlo alla Commissione di epurazione, Commissione che ebbe poi poteri molto limitati proprio a causa dall’Amnistia Togliatti, grazie alla quale tanti “redenti” transitarono impunemente della fedeltà al fascismo alla militanza comunista. Attaccando il filosofo, Togliatti si scagliava contro quegli antifascisti liberali non assimilabili al suo progetto di egemonia culturale, in cui non era praticabile la distinzione crociana tra etica e politica. Per Croce la libertà costituiva «la premessa sana e morale di tutti i partiti» e il liberalismo non poteva «rimpicciolirsi» in un partito, ma doveva rappresentare un “pre-partito”.

La concezione liberale, come concezione storica della vita, si caratterizzava secondo Croce per essere formalistica, vuota, scettica e agnostica, come il pensiero moderno, che ha rinunciato al sapere dogmatico e definitivo. Se muovendo da tali premesse è certamente difficile elaborare il programma di un partito, è innegabile che queste idee possono ancora alimentare un pensiero critico in grado di resistere all’oppio ideologico nelle sue variegate  declinazioni. 

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