Il nuovo romanzo uscito per Sem è stato scritto da Michele Rossi, Adriano Masci e uno specialista di Ia. Ispirato alle vicende delle Bestie di Satana, il collettivo ha suggerito alla macchina di assumere uno sguardo laterale sulla vicenda. Ne è uscito un libro che non è un granché, ma che si confonde nella media del genere
«Sebbene i fatti narrati traggano ispirazione da eventi realmente accaduti – in particolare dai crimini noti come quelli delle Bestie di Satana – i personaggi, le situazioni e le dinamiche descritte sono frutto dell’immaginazione di Andrea Damasco»; segue il tormentone «ogni riferimento a persone esistenti, vive o defunte, è da considerarsi puramente casuale». Avvertenza consueta in una lingua di ordinaria burocrazia editoriale; se non fosse che Andrea Damasco non esiste.
Andrea Damasco è (come dice il risvolto di copertina) «un collettivo di scrittura riunito intorno a un’intelligenza artificiale»: in pratica si tratta dell’esperimento condotto da tre persone (Michele Rossi, Adriano Masci e uno specialista di Ia) per produrre il romanzo Bestie pubblicato il mese scorso da Sem, la casa editrice rinata sotto l’ombrello del Gruppo Feltrinelli. In copertina, a scanso di equivoci, accanto al logo di Sem compare la scritta “Artificial Crime”: è il primo caso in Italia (altrove, per esempio in Giappone, qualcosa di simile è già successo) di un’opera letteraria che ammette esplicitamente di non essere stata scritta da un autore in carne e ossa.
Dentro il collettivo
Nessuno dei tre, almeno al momento, pensa a sé stesso come a uno scrittore. Il nome Andrea (che può essere sia maschile che femminile) è stato scelto in omaggio alla macchina che non è né maschio né femmina, in inglese la si direbbe col neutro, it; le royalties che spetteranno all’autore inesistente verranno devolute a un’associazione umanitaria.
È probabile che, senza ammetterlo, altri romanzieri si siano già fatti “aiutare” dalla Ia – ma in questo caso l’interesse sta proprio nel rovesciamento di prospettiva: non uno scrittore che utilizza la macchina, ma una macchina a cui si chiede di far la parte di uno scrittore esordiente “seguito” da due editor (pare che la macchina abbia accettato con trepidazione l’incarico, ben sapendo di non essere umana).
Trama alla Sollima
Gli editor (come fanno davvero con qualche esordiente) si sono limitati a dare un imput di massima: appunto la vicenda di quel misto di satanismo, musica heavy metal e pazzia che tenne in allarme la provincia di Varese a cavallo tra Novecento e Duemila. Avendo amato la miniserie Netflix realizzata da Stefano Sollima sul mostro di Firenze, e apprezzato lo spiazzamento dell’aver seguito la pista sarda su cui il mainstream mediatico fino a quel momento non si era esercitato, i tre nostri sperimentatori hanno suggerito alla macchina esordiente di assumere uno sguardo laterale e di formulare per il finale un’ipotesi straniante. Tutto qui. Poi lei (lui, it) ha cominciato a produrre materiale scritto, che loro correggevano e revisionavano.
Ne è venuta fuori la protagonista Bianca (che di cognome fa Reale, forse per ironia), una ragazza ventenne solo parzialmente coinvolta: si innamora di Carlo, un componente del gruppo, è ossessionata sessualmente dal capo ma all’ultimo non partecipa all’orgia-rito satanico (it è assai prude, si sa) – il suo nome non è mai comparso nelle carte processuali, lei ha fatto perdere le tracce diventando Sara da Bianca, ha passato dieci anni nascosta in un convento, sempre timorosa che il passato la raggiunga.
Dopo ben ventidue anni, dal 2002 al 2024, un ennesimo cadavere riporta il caso all’attenzione, l’antico innamorato di Sara-Bianca ha ormai pagato il proprio debito con la giustizia e c’è una giornalista, Anita, che partendo da lui riesce a rintracciare lei; questa giornalista è l’altra invenzione di it perché è strana, anomala, si capisce che fa domande con un’ansia più che professionale.
A quel punto il suggerimento-Sollima dà i suoi frutti: il padre della giornalista, giornalista a sua volta, aveva intuito che dietro le Bestie di Satana c’era un torbido groviglio di interessi della ‘ndrangheta, connessi alla costruzione del nuovo aeroporto di Malpensa. Per aver «pestato i piedi sbagliati» è stato impiccato, con la stessa modalità dell’ultimo dei morti attribuiti alle Bestie – per di più (si può spoilerare con l’Ia?) perfino il padre di Sara, costruttore, era coinvolto perché sennò non avrebbe potuto lavorare, la madre conferma. Solo dopo aver attraversato il male proprio e altrui la protagonista può riconciliarsi col passato, chiama una vecchia amica e al suo «chi è ?» risponde «io, Bianca».
Lo stile dell’Ia
Il congegno narrativo del cold case si quadra con una certa precisione, anche se la parte sulla criminalità organizzata arriva forse troppo tardi ed è un po’ tirata via. Ma la questione decisiva, come al solito, è stilistica: come scrive la macchina, quali indicazioni le sono state date?
Per non rovinare amicizie e non avere problemi di diritti, la piccola troupe ha evitato di suggerire a it lo stile di giallisti italiani; si sono rivolti ad autori internazionali di bestseller, largamente gravitanti intorno al genere “crime” – per la verità, lavorando con la versione italiana di ChatGpt 4 e 5, la macchina aveva a disposizione le relative traduzioni italiane. La mia prima impressione di lettura è stata di trovarmi di fronte a uno dei veri esordienti che vengono alla scuola di scrittura dove insegno; o anche a un thrilleraro medio italiano, o a un giornalista d’inchiesta. Gente che proprio su quelle traduzioni si è formata.
Le caratteristiche ricorrenti sono le frasi nominali (chissà che gli hanno fatto di male i verbi), una paratassi insistita con frasi molto brevi, abbondanza di virgole e punti fermi, l’uso quasi esclusivo del presente storico. Molte descrizioni ad elenco, una lingua funzionale che non si sporge per conoscere ma narra o al massimo emoziona.
Poi, a sorpresa, compare qualche scatto da scrittore: qualche dettaglio commovente («vado da Valeria, resto da lei a dormire, aveva urlato a sua madre chiusa in cucina, probabilmente a fissare il forno acceso»), qualche paragone inaspettato («attraversano il locale come si risale in superficie quando si è immersi, in apnea, velocemente ma senza agitarsi»); oppure Carlo quando spera che il padre emotivamente freddo lo fermi e gli dica «resta qui ancora un po’ e parliamo di tua madre, parliamo di tuo fratello, parliamo di tutto quello di cui non abbiamo mai parlato e poi stringiamoci la mano e diventiamo due perfetti sconosciuti».
O infine l’amore “giusto” tra Carlo e Bianca («Un passo oltre la tenerezza, un passo prima della violenza. Una cosa attorcigliata, goffa, stupenda»). Anche il politicamente corretto sa trovare la poesia nelle terne di aggettivi.
I due “istruttori” mi confessano però che, soprattutto all’inizio, davano da mangiare alla Ia le loro versioni già “aggiustate” e lei (lui, it, che vuole compiacere come sua mission) se ne appropriava e le assumeva come nuovo standard; quindi non sapremo mai del sacco di chi siano farina certe frasi efficaci. Mi assicurano, per esempio, che i sogni dei personaggi sono opera esclusiva di it, a cui l’algoritmo evidentemente ne ha forniti parecchi.
Umani e non
Non posso sottrarmi a un giudizio di valore generale: insomma Bestie è un romanzo bello o brutto? Secondo me non è un granché, si confonde nella massa della produzione di quel genere. Ma, appunto, si confonde. Questo significa che per produrre un romanzo indistinguibile dalla media non serve più uno scrittore: bastano un direttore editoriale curioso, un bravo editor e un esperto di Ia.
Quel che per tanti ragazzi e ragazze ha significato paradiso e inferno, nella prospettiva della produzione industriale non è che buona organizzazione del lavoro. C’era una volta A sangue freddo di Truman Capote: il romanzo che ha rovinato la vita del proprio autore, un omosessuale sensibile che si è prima identificato con, e poi innamorato di un giovane assassino e da allora non ha più potuto portare a termine nessun altro romanzo, morendo di cirrosi epatica prima dei sessant’anni. Nel suo libro questo rischio esistenziale si sente.
Le macchine non hanno inconscio, mi dicevo per rassicurarmi; per adesso. Ma se l’umano si offre sempre di più alle macchine, se le macchine sanno di noi cose che neppure noi ricordiamo, la macchina accumulerà, per via di algoritmi, un’esperienza anche individuale? Potrà permettersi di rischiare, renderà possibile l’autofiction, scegliendo random tra ciò che ogni singolo io ha dimenticato? Se la conoscenza sarà affidata a Grokipedia diventeremo anche noi non umani, solo che a differenza di it ci ostineremo a non volerlo ammettere?
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