In occasione della sua morte tanti, tantissimi, hanno evocato i modi e le occasioni dei loro incontri con Goffredo Fofi. Quanto più frastagliata è la fama lasciata dall’assente e di quell’assente in particolare, sembra ci si possa conquistare un po’ delle sue virtù. Ora è a disposizione di tutti, anche di quelli che lo hanno conosciuto solo di sguincio. E l’hanno guardato di sguincio. E che hanno temuto le sue tirate di sguincio. In fondo Goffredo è diventato una leggenda e le leggende hanno qualità culturali nutritive. Così funziona.

Mi piacerebbe tentare di mettere a fuoco la sua personalità e per farlo non posso sottrarmi alla modalità in cui la sua figura ha agito su di me.

L’ho conosciuto poco più che ventenne davanti al cinema Obraz dove davano in edizione originale il film di John Douglas e Robert Kramer, Milestones (1975). Ero uscito confuso, avevo fatto fatica a entrare in quell’americano masticato con crudezza, ma non avevo avuto dubbi a celebrarne la grandezza. Goffredo ne aveva scritto in termini più che positivi. C’era dentro una comunità ribelle. C’era la resistenza alla guerra del Vietnam. E la dimensione spettacolare era ridotta all’essenziale. E verrebbe subito da dire: queste erano in estrema sintesi qualità più che sufficienti per destare il suo osanna, ma non era vero. Non è vero. Come poi ebbi modo di constatare, la severità del giudice non si portava necessariamente appresso la dimensione critica del censore schierato, dell’impegno ad alto tasso ideologico. Per niente.

Già allora godeva della fama di implacabile sulle pagine della rivista “Quaderni piacentini”. Non sapevo ancora molto del suo bagaglio culturale, di quanto fosse ampio e di quanto continuava ad attingere dentro le generazioni in movimento di quegli anni. Era evidente che cercava talenti che sapessero portare addosso le ustioni del presente, magari anche gli eventuali fallimenti del presente. Rammento lo sconcerto riscoprendo con lui il melodramma superficiale della Caduta degli dei, o l’inconsistenza di Allosanfàn dei fratelli Taviani.

Aspettavo ogni mese – e non ero il solo – per scoprire su chi si era abbattuto, o chi avrebbe celebrato, o quale classico degli anni trenta quaranta avrebbe evocato per mettere alla gogna il fiacco e ornamentale regista contemporaneo.. C’era qualcosa nelle sue stroncature e nelle sue ovazioni che mi prendeva sempre di sorpresa e non era sempre un dettaglio che avesse a che fare con quello allora si chiamava “lo specifico filmico”: lui andava oltre, vedeva relazioni, tirava elastici, davanti al pubblico dei suoi lettori faceva tremare un nome, un’opera, un lascito. E chi “tremava” imparava .

Fu Bruno Dente che me lo presentò quel tardo pomeriggio del 1977 davanti al cinema Obraz e usò, più o meno, una definizione come quella che segue: “l’ultimo vero intellettuale italiano”. Non molto distante abitava Franco Fortini: quasi temetti che avesse potuto sentire…

Non sorprende che a diciott’anni avesse preso la strada della Sicilia per seguire Danilo Dolci. Quale che sia l’eredità di Dolci il nome allora (siamo nel 1955) suona forte, è di per sé uno schieramento eccentrico, politico e morale insieme, è una chiamata, come quella delle campane di Hemingway, che getta luce sulla povertà e sullo sfruttamento, che forza a imparare come dirli, la povertà e lo sfruttamento. E il giovane Goffredo è là – più tardi saprà anche apprezzare le. fragili poesie di Dolci, una in particolare che si chiude così: “sognando gli altri come ora non sono / ciascuno cresce solo se sognato”.

Già. Ciascuno “cresce”. Goffredo cresce fra Parigi e Gubbio, fra Torino, Napoli, Milano, Roma. A Torino è con la sinistra operaista di Raniero Panzeri e dei “Quaderni rossi”, intimidito – così lui dice e ci crediamo – dalla solidità teorica di quel gruppo. Nel ’62 Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi “far parte del comitato di direzione più tardi. Poi è il tempo della schieratissima “Ombre rosse” e più tardi, in tempi difficili, è alla guida dei progetti più ampi e “resistenti”: “Linea d’Ombra” e “Lo straniero”, ma anche “La terra vista dalla luna”, “Dove sta Zazà” e “Gli Asini”.

Ho citato ciò che non si può non citare, soprattutto per disegnare un percorso dove è decisiva la “scuola”, l’apertura pressoché inesausta verso il nuovo che non ha bisogno di sbandierare la sua novità. Di fronte alla fisionomia di intellettuale di Fofi, si può restare confusi, ma non è così: non c’è mai stato un “settore” che abbia veramente scavalcato gli altri. Il grande e autentico amore per il cinema non è mai stato inferiore a quello per la letteratura (la narrativa ma anche il territorio più movimentato della poesia), per la arti figurative, per il teatro, per la canzone popolare. Ha tenuto insieme le sue predilezioni e ha coltivato le sue furie come fossero il multiforme materiale strategico per insegnare al mondo (e più particolarmente al mondo dei giovani intellettuali) come pensare, come riconoscere il nemico, come non giocare mai in difesa.

È in fondo sempre stato il maestro elementare che ha voluto essere. Partire dalla grammatica e arrivare alla complessità della lingua, dall’utensile perfetto al suo uso, un po’ come aveva fatto don Milani nella sua avventura di Barbiana (e in nome del priore si è stabilita negli anni duemila la bella amicizia con Dede Corradi, professoressa negli ultimi anni sul Mugello). Il pedagogo lo troviamo sempre, a ogni svolta del suo percorso, e per altro abbiamo finito per conoscerlo nelle lezioni che è riuscito a impartirci ogni volta che lo si incontrava. Non più di quattro mesi fa pranzai con lui e annunciò che gli era rimasta solo un’alternativa: suicidarsi o stare in silenzio. Aggiunse subito che per il suicidio non era portato. E neanche per il silenzio, dissi, e lo lasciai, ipnotico come sempre, a spaziare da opinione a consigli di lettura.

Il rischio del critico eccentrico è stato spessissimo contraddetto da prese di posizione meravigliosamente contrastive: uno dei suoi libri più belli è L’avventurosa storia del cinema italiano (1979) che è uno squisito lavoro di montaggio. La predilezione per tanta narrativa occidentale che ha toccato i vertici dell’espressione – penso al suo fondato amore per I morti di James – non ha escluso affondi preziosi nella cultura popolare: Totò, prima di tutti, e Nino D’Angelo (e in Più stelle che in cielo dispiega formule lancinanti sulla dinamica “celeste” della cultura di massa). Si avverte in questa rete di opere e personaggi (l’elenco potrebbe durare all’infinito) un sentore di studio e di ricerca inesausti. Tanto la sua prensile intelligenza ha captato lo scialo, la debolezza, il deperire della società civile e politica, tanto ha finito per mettere in fila dentro quel furioso, caldo pessimismo tracce di vitali esperienza di un bene.

Uno dei suoi libri più belli, Cari agli dei, ci dice tanto di chi ha avuto accesso al suo olimpo, e di come l’ha conquistato. Alessandro Leogrande figura qui – anche per la sua troppo troppo anticipata scomparsa - come il ragazzo che rappresenta con più vigore il “caro agli dei” e insieme l’esempio di quella instancabile raccolta di giovani menti che ha arricchito l’opera pedagogica di Goffredo Fofi. E Leogrande, che ho avuto la fortuna di conoscere, è stato fra gli ultimi (e fra i molti) a offrirgli, come il sodale Vittorio Giacopini, non solo il supporto ma anche il conflitto di una interlocuzione che si rispetti. Sarebbe tutta da riscrivere la biografia di Goffredo Fofi. Sarebbe una grande sfida vederlo come non si è mai lasciato guardare, cavarne il carattere e riconoscergli il posto che gli è dovuto nella identità culturale di questo paese.

Degli anni che sono stati i suoi e della mia generazione ha scritto: “Ma quegli anni erano anni di trasformazioni profonde e di grandi speranze collettive. Nella breve storia d’Italia unita non sono paragonabili a nessun altro periodo, e nessun altro periodo ha visto coinvolte così tante persone, e di origini sociali così diverse.”

Chi meglio di lui può ancora insegnarci cosa siamo stati, e forse cosa saremo?

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