Taranto, 29 giugno

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È la fine di un giugno che si farà ricordare come uno dei più roventi della storia. Almeno questa è la narrazione imperante. Narrazione che vuole, oramai, dare un nome a tutto, per farlo proprio, poterselo intestare con maggiore facilità. Neanche gli anticicloni, africani o delle Azzorre che siano, vengono risparmiati. Nomi fatti per essere consumati, che durano niente.

Narrazione o meno, Taranto brucia da non crederci.

La città vecchia, i quartieri nuovi, la famigerata area dell’ex Ilva, sembra di vivere su un pianeta diverso dalla terra, per la temperatura disumana e il rosso della polvere ferrosa attecchito ovunque. Un lascito dell’acciaieria, un colorito marziano che ricopre tutto e che i tarantini si respirano ogni giorno.

«Eppure c’è chi la difende ancora, all’Ilva, magari hanno uno o due familiari morti di malaccio, ma la difendono. Qui per anni ha funzionato in questo modo: si viveva per lavorare e per lavorare si moriva. E andava bene a tutti». 

A parlare è un tassista di una cinquantina d’anni.

«Ma non pensiamoci. L’ha vista la foto di Draghi di oggi? Al museo del Prado? Se non l’ha vista se la cerchi così si leva i pensieri su Taranto. Sembra un bambino delle elementari». 

Ci vuole poco per trovarla.

È uno di quegli scatti che rimarrà nella storia minima del nostro paese. Un gregge di leader mondiali, per il vertice della Nato legato alla guerra fra Russia e Ucraina, in gita dentro il museo del Prado a Madrid. Seduto in disparte, di spalle rispetto agli altri, con una postura del corpo vagamente infantile, ecco il nostro primo ministro. Mario Draghi. È al telefono.

È vero. La foto fa sorridere.

Ma basta poco, basta notare la sottile scortesia che mostra il nostro premier rispetto ai suoi colleghi, rispetto all’etichetta diplomatica: seduto così in disparte, distaccato, addirittura di spalle.

Quella foto fa sorridere, come fa sorridere la prima impercettibile crepa che si apre sul fronte di una diga.

Le spiegazioni ufficiali buttano acqua sul fuoco, solo una telefonata per definire alcuni dettagli del Consiglio dei ministri del giorno seguente.

Fatto sta che Draghi lascerà anticipatamente il vertice per tornare a Roma.

«Per molti i Cinque stelle vogliono la crisi, ma Draghi non lo tocca nessuno, lo hanno messo per la pandemia, a ottobre partiranno con la quarta dose, poi a primavera la quinta, l’Europa, le grandi aziende farmaceutiche, ce l’hanno messo loro, ci vogliono far diventare un popolo di vaccinati rinchiusi dentro casa. Per fortuna c’è qualcuno che gli sta facendo sentire che non tutti hanno abboccato alle loro cazzate»: 

«E chi sarebbe questo qualcuno?»

«Come chi? Putin ovviamente. Se non riesce a fermarli lui siamo rovinati. Ma Draghi non lo toccano. Sicuro». 

Silenzio.

Il tassista aggiunge un altro tassello al nostro presente.

La quantità industriale di narrazioni, più o meno dominanti, capaci di dare un nome anche a una semplice perturbazione atmosferica, ha moltiplicato all’infinito le tesi su quella che una volta chiamavamo verità.

E non ci vuole grande genio per capire che una tesi tanto più sarà costruita su quelli che sono i sentimenti ansiogeni della persona, le sue paure, preoccupazioni, tanto più avrà facilità di accesso e accettazione. In pratica, tanto più diventerà vera.

Scendo dal taxi, con due convinzioni.

La prima riguarda Draghi è il futuro prossimo che ci aspetta, con preoccupazione. Sono un filodraghiano per mancanza di alternative anche solo lontanamente accettabili. È come vedere l’ètoile di un grande teatro accanto a ballerini da balera.

La seconda convinzione è che i tassisti andrebbero studiati con rigore scientifico. Forse tutto lo smog, a Roma come a Milano, come a Taranto.

Napoli, 14 luglio

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Napoli è patrimonio dell’universo. L’anticiclone africano non ha mai mollato la presa. Ma lei, anche da accaldata, schiacciata dall’afa, resta la città più bella e innamorata, innamorata perché popolare, con un gusto nell’esserlo, popolare, che altrove si è disperso.

È quasi sera. In zona Santa Lucia è tutto un fermento di ristoranti che si preparano alla cena, mentre i bar lavorano a pieno regime, un andirivieni di spritz e prosecchi.

Gli occhi si perdono tra cielo e terra, tra profumo di mare e sua maestà il soffritto.

Dal bar, con braccia sollevate, tanto è vero che al principio penso a qualche amichevole estiva del Napoli, esce un ragazzo, capelli cortissimi, mentre la barba, lunga almeno una decina di centimetri è curata da fare spavento, sembra appena uscito dal barbiere. Sempre a braccia alzate va da un suo collega, anch’egli ignaro della festa da onorare. Finalmente il cameriere parla, a voce alta, per tutti:

«Draghi si è dimesso. Notizia di pochi minuti fa».

Avviene uno strano fenomeno.

Tutti i clienti, tra cui il sottoscritto, prendono la notizia con grande rammarico, anche quello che dovrebbe essere il titolare del bar non sembra proprio al colmo della gioia. Invece i camerieri, anche quelli dei locali attigui, saltano e si abbracciano. Una tale spaccatura di reazioni e sentimenti non si vede tutti i giorni.

Riesco a chiamare il ragazzo che ha portato la notizia.

«Cosa è successo?», gli chiedo.

Lui alza le spalle.

«Non c’ho capito bene, in pratica la fiducia è passata, ma senza i voti dei Cinquestelle, hanno provato tutto il pomeriggio a trovare qualche via di fuga, ma alle 18 e 45 Draghi si è dimesso. Finalmente!!».

«E tu perché sei così contento?». 

Lui mi guarda come fossi una sottospecie umana.

«Come perché, a chi appartiene la democrazia? Al popolo. E noi da quanti anni è che non votiamo? Che ce la immischiano, tra governi tecnici, governi salvaquesto e salvaquello. Finalmente si torna a fare quello che si fa in tutti gli altri paesi». 

Si allontana per servire una cliente, a guardarlo, anche per la passione che mette nel lavoro, sembra davvero un bravo ragazzo, anche simpatico. Lo richiamo.

«Portami una coca zero, ma prima mi devi fare un favore, anche io sono contento di andare a votare, è giusto, funziona così, ma, visto il clima in Italia, non hai paura che a vincere siano quelli sbagliati? Quelli che credono ancora che esista un nord e un sud, che ci siano popoli da rispettare più di altri, che certe disuguaglianze devono essere difese, e non combattute».

Lui mi si avvicina, si alza un poco la manica della polo, sino a mostrare la spalla sinistra. Sopra, stilizzata, una bandiera italiana che sventola.

«Devono vincere gli italiani dotto’, ci hanno massacrato in ogni modo, da nord a sud, io voterò quelli di cui lei ha paura, io e tanti altri».

Non me lo aspettavo, dopo un attimo di stordimento reagisco:

«Devi ammettere però che Napoli, la tua città, ha un’altra storia, un altro presente, qui si è sempre trovato il modo per convivere, in pace, in tanti si sono fermati proprio per come si vive, si mangia, perché c’è spazio per tutti».

«Una volta era così, ora dai quartieri si fugge, o te la cavi da solo o a te non ci pensa nessuno. È la giungla. Morte tua, vita mia. E chi è ricco se ne fotte».

«È questo proprio il punto. Basterebbe poco, ci sono uomini, anche qui a Napoli, in tutto il mondo, che hanno ricchezze che potrebbero sfamare quartieri interi. Basterebbe solo un po’ più di giustizia. Ti assicuro che sarebbe possibile».

Lui, con la sua barba squadrata, mi sorride per pietà.

«La giustizia? Datemeli a me tutti quei soldi, a parte qualche parente, l’unico che arricchirei è il sottoscritto. Gliel’ho detto: è una giungla. Vivo io. Muori te».

Si allontana per rientrare nel locale, quando esce è proprio me che cerca: «Ma non si preoccupi dotto’, qua non cambia mai niente, Mattarella due minuti fa ha respinto le dimissioni di Draghi. E ora via con l’ammuina».

Lo saluto. Mentre mi allontano prendo atto di qualcosa che ho già toccato con mano tante volte. Non conta la ricchezza dei quartieri, la città, se nord o sud. E non mi riferisco solo all’Italia.

È sparito il plurale.

Siamo un esercito di “io” che combatte un continuo corpo a corpo con tutti gli altri.

Non è solo l’eredità post-ideologica che ci ritroviamo a vivere, certo, quella ha corroso qualsiasi forma di partecipazione attiva, piaccia o meno resta giusto la chiesa a esercitare un certo tipo di richiamo e aggregazione. Ma la questione è più estesa, cellulare, è divenuta modello.

Il “noi” prevedeva uno scambio di idee e relazioni in funzione di obiettivi comuni, un lavoro a più braccia per raggiungere il medesimo risultato sociale. Richiedeva un progetto, e alla base dei progetti ci sono le visioni. Visioni.

Oggi, invece, dalla musica al cinema, passando per tutti i contenuti, parola orribile con cui definire un’opera di nuova generazione, vale l’impresa del singolo.

Dell’io contro il mondo.

Non solo. Oggi il singolo trova il primo terreno di battaglia proprio nella sua stessa comunità, non più vista come luogo affettivo e formativo, ma come zavorra da cui fuggire, non migliorabile, da maledire, una specie di negazione delle proprie origini.

Luoghi dannati, perché popolari, da cui dobbiamo salvarci da soli, senza chiedere aiuto, e soprattutto senza darlo.

Anzio, 20 luglio

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La giornata, al mare di Anzio con la famiglia, era una promessa non più procrastinabile. Nello stabilimento, l’età media non è certo da ragazzini, tanti, tantissimi i nonni con i nipoti al seguito, oggi l’argomento non è questo o quel flirt della star, o lo scandaluccio senza peso.

Oggi, dai telefonini, ovunque, il tema è uno solo: Mario Draghi resisterà anche questa volta oppure è il momento della capitolazione?

Il mio ombrellone è vicino a quello di due signori attorno ai settanta, lui con la cuffietta all’orecchio sta ascoltando un tg, ha il volume talmente alto che la voce di Draghi la sento pure io da qui. Mi guarda, capisce il comune interesse.

«Ha appena finito di parlare, perfetto come sempre. Ora parte la discussione». 

«C’è da aspettare», gli rispondo.

Lui alza le braccia, il bello e il brutto del mare è che ci offre per quello che siamo. Corpi. Che il tempo sbertuccia a suo piacere. Il mio vicino di ombrellone sospira.

«Io non ci spero più. Ma lei se la immagina quella selva di disastrati senza Draghi a dargli una disciplinata? Ma può esistere un altro paese che fa cadere il proprio governo mentre si esce da una pandemia, con una guerra in corso, mentre da qui a pochi mesi inizieranno a mancare le materie prime. Ma perché?». 

Ora sono io ad allargare le braccia.

«Il paese è frantumato, ognuno guarda i propri interessi. Ma ha ragione: è una pazzia. Una pazzia». 

Le ore marine passano tra un bagno e tutte le meravigliose attività amate dai ragazzini e un poco meno dai genitori. Ma solo per un dato di fatto: la stanchezza. Per una giornata al mare con figli al seguito servono tre giorni di riposo.

Il mio vicino d’ombrellone, da liturgia osservata con devozione, se n’è andato a pranzo nella casetta che avrà qui vicino e dopo doverosa pennichella eccolo tornare in spiaggia con la moglie al braccio.

Appena incrociamo gli occhi, scrolla la testa, è afflitto.

«Cinquestelle da una parte, e Berlusconi dall’altra lo faranno cadere, stanno solo trovando l’escamotage tecnico. Alle cinque Draghi tornerà in aula per la replica. Ma ormai». 

Il sole dolcemente si arrende alla sera, per chi ama il mare è l’ora più bella.

Il mio vicino d’ombrellone, compagno di sventura di fronte al crollo del governo Draghi, mi viene a salutare sul bagnasciuga. È un modo, gentile, gratuito, per darmi l’ultima notizia.

APN

«La fiducia è passata, hanno fatto un papocchio per assicurare il numero legale, in pratica lo hanno pure preso in giro. Stia bene. E che Dio ce la mandi buona». 

Il 21 mattina Mario Draghi si reca da Sergio Mattarella che, questa volta, non può fare altro che approvare le sue dimissioni e dare il via a tutto l’iter istituzionale che porterà a nuove elezioni.

In giro prevale il senso di sbigottimento. Il popolo italiano è diviso in due fazioni, per fortuna numericamente molto diverse. Da una parte ci sono quelli che, da Covid a guerra a chissà che altro, sentivano l’urgenza di tornare alle urne perché privati di un loro diritto universale. Perché attraverso la negazione del voto mille e mille complotti si stavano tramando alle loro spalle, amplificati oramai in modo infernale dai social network.

Poi c’è l’altra fazione di italiani, enormemente più numerosa, che vedeva in Mario Draghi, dopo quasi due decenni di performance internazionali dei nostri politici a dir poco tragicomiche, l’arrivo di un uomo che, almeno, non ci faceva vergognare. Anzi, semmai il contrario.

Ma il problema, purtroppo, magari fosse limitato alla figura di Draghi.

Occorre ricostruire un plurale narrativo capace di magnetizzare di nuovo le persone. Ma per farlo, oltre alla passione, serve qualcuno che si produca in una visione nuova del nostro paese. Una visione che metta in dubbio tutto, che sia, termine lasciato al Novecento, perché no, anche utopistica. E che a questa visione creda. E che vada in giro a raccontarla, farla vedere.

Oppure, drammaticamente, continueranno sempre di più a prevalere quelli che mettono al posto delle visioni le paure, costruite ad arte, mendaci, ma che vincono facile.

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