Eccoci alla fine del ciclo delle cose da maschi in estiva, ultimo appuntamento di questa newsletter prima di una pausa di cinque o sei settimane. Pensavo avrei scritto più specificamente, più articolatamente, di come il genere grammaticale non è meno spesso campato in aria (meno arbitrario, meno dettato da casualità e abitudini e mitologie) rispetto a quello sessuale, che ci ostiniamo ad assegnare con binaria nettezza senza contemplarne le sfumature, le ambiguità, le biforcazioni e i nonsensi.

Invece tutta questa roba è rimasta implicita dietro all’euforia da secchione che mi ha riportato in sala dizionari, dove all’università ho preparato alcuni degli esami più soddisfacenti – e poi da ricercatore mi sono spaccato la testa su certi stranissimi lessicografi fascisti, sui raffinati versi di Dario Villa, sulla lingua delle futuriste fiorentine e dei surrealisti italiani.

Ho però sempre osservato le regole del gioco impostato all’inizio: ragionare su parole che sembrano il maschile e il femminile l’una dell’altra, ma invece provengono da ceppi genealogici distinti e significano cose completamente diverse. Chiudo dunque sull’ultima diade, quella di “busto” e “busta”, che mi consente di punzecchiare un po’ il concetto stesso di genealogia alla radice (no pun intended) dell’intera questione.

Illustrazione di Alessandro Giammei

Ragioniamo genealogicamente sulle lingue perché ci mettiamo in relazione di filiazione con chi parlava quelle che non si parlano più, e che diciamo perciò “morte”. Ma è davvero mai morta una lingua di cui abbiamo notizia, di cui conosciamo i lemmi, di cui addirittura leggiamo i testi? Lo è solo, credo, nel senso in cui sono morti i morti che Dante incontra nel suo viaggio ultramondano. O come sono morti gli zombie, i vampiri e le altre creature cui si può dire, come Bertrand de Born all’Inferno: «Tu che, spirando, vai veggendo i morti».

Dante è al centro di questa mia elucubrazione sulla busta e sul busto – e anche Bertrand, alla cui descrizione tipo Silent Hill si associa uno dei tre unici usi di queste parole nell’intera opera dantesca. Ma nell'articolo figurano anche Winona Ryder (in Dracula, e Chiara Valerio che ha scritto una sua progenitrice), Loki, Shakespeare, Zerocalcare e due polverosissimi filologi dell’Ottocento: Francesco D’Ovidio (che secondo Wkipedia è stato candidato al Nobel per la letteratura un sacco di volte) e Friedrich Christian Diez (che secondo me, dell’etimo di “busto”, non ci aveva capito una mazza).

Mi auguro che troviate il tempo di leggerlo tutto, dal latino dei centurioni di Mel Gibson alla “busta de fave” che a Roma significa “ragazza poco avvenente”, perché in filigrana c’è molto di quel che volevo dire con questa parentesi linguistica di Cose da maschi – di come il patriarcato infetti anche il modo in cui ragioniamo sul passato, di come il gioco (anche linguistico, certo semiotico) sia una cura potente contro i malanni che ci procura, di come ci sia tanta tradizione (e persino tanto amore per la tradizione, e per il passato) anche in molte istanze che paiono rivoluzionarie e ciecamente innovatrici, e che sono invece morbide, pensose, accoglienti più delle rigide abitudini che si ingegnano di sostituire. Lo trovate qui su Domani online e sabato, come al solito, in edicola.

Come annunciato già, a impreziosire la rubrica prima della pausa torna, per la terza volta, il filosofo Lorenzo Gasparrini che, dopo averci illustrato cos’è un uomo femminista e come è bene ragionare sul privilegio, ci offre uno di quegli articoli che bisogna tenere nella cronologia dei preferiti per poter controbattere agevolmente quando parte una classica trollata cospirazionista di somma imbecillità.

Tale trollata è l’antico adagio per cui gli uomini che si dicono femministi – che trovano che le questioni di genere riguardino anche loro, che si informano e riflettono sulla sessualità e sui diritti, che lottano per non essere definiti dal patriarcato – lo facciano per rimorchiare. Come al solito, Lorenzo imposta un ragionamento serrato e sereno, socraticamente invitante, di tranquilla logica – lo trovate qui su Domani online.

E così, a partire dal debunking della teoria per cui un ragazzo woke sarebbe un banale arrapato che ha trovato un escamotage, arriva a mettere in discussione con efficacia vari topoi da dibattito su Twitter: dall’idea che sia legittimo sospirare per i corteggiamenti anche aggressivi “di un tempo” alle supposte eredità della cavalleria e del romanticismo, che in fondo restano l’anima d’acciaio inossidabile di tanta narrativa di cassetta tra libri, cinema e tv. Quando me l’ha inviato gli ho scritto:

«Questa roba del corteggiamento sempre allucinante, comica, insensata. Mi pare più pronunciata in Italia, ma anche in America c’è tutta una sovrastruttura da demolire – le mie studentesse, sempre sul pezzo, la tirano fuori ogni volta che in classe si parla appunto di “corte” e “cortigiani”, stupite quando spiego il legame paradigmatico che lega Castiglione a Jane Austen, a una certa idea di come le relazioni tra sessi dovrebbero esprimersi per via di comportamento al fine di produrre il famoso “romance”, che non a caso mette insieme Roma, Romanzo e Romantico».

Lui mi ha risposto che in effetti i suoi studi radicano nell’estetica della letteratura e nell’analisi della forma romanzo, e che uno dei corsi che ha insegnato «era tutto un lungo excursus sulle famose coppie della nostra tradizione letteraria, e sul fatto che continuare a parlarne e a farne “tradizione” senza un’idea critica significhi continuare a tramandare modelli di coppia, di relazione, d’amore ormai del tutto tossici».

Insomma, in un giro di mail abbiamo già messo insieme temi che dovranno tornare nella seconda stagione di Cose da maschi, le cui lettere credo torneranno a visitare le vostre caselle postali a settembre.

Illustrazione di Alessandro Giammei

È funestato, quest’ultimo invio di mezza estate, dalla morte di Luca Serianni, che non è sopravvissuto al coma di cui dicevo sgomento mercoledì scorso. Gli onori che gli si tributano ovunque offrono un magro conforto alla malinconia per questo improvviso lutto nazionale, cui partecipo da tanto lontano.

Vedere, nel giornale di sabato scorso, il mio articolo accanto a una sua lezione di qualche anno fa sulla lingua italiana come cittadinanza mi ha fatto sentire infinitesimale – anche perché, per un refuso che associo al balbettio che mi sopraffaceva al suo cospetto, sotto al mio nome è comparso, invece che il solito “italianista”, un incongruo e associativo “linguista”. E tuttavia il ritratto di Serianni disegnato da Marilena Nardi, assieme alle sue parole di specchiata semplicità e chiarezza, mi hanno rincuorato, come sempre.

Consiglio a chi come me trova consolazione nelle cose chiare, che funzionano, che tornano e illuminano, di cercare “Luca Serianni” su YouTube, e abbandonarsi all’ascolto di una delle tante lezioni di cui, per fortuna, conserviamo vivida traccia.

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