È un padiglione vociante e affollato quello di Francis Alÿs, artista nato in Belgio nel 1959, ma di stanza a Città del Messico dal 1986, che rappresenta il suo paese d’origine alla Biennale di Venezia di quest’anno. Per l’occasione Alÿs presenta The Nature of the Game, un progetto che racconta i giochi di strada dei bambini raccolti nel corso dei suoi viaggi in giro per il mondo, per lo più in luoghi problematici, segnati da conflitti e disparità.

Vediamo così in un mega schermo i piccoli congolesi di Lubumbashi nei loro abiti sgargianti che spingono grossi pneumatici su per un enorme cumulo nero di scorie delle miniere di cobalto (materiale che serve per le nostre batterie), per poi rannicchiarcisi dentro e ridiscendere rotolando in picchiata. In un altro video le ragazzine di Hong Kong impegnate nel salto con la corda riescono a sincronizzare i loro movimenti fino a muoversi gioiosamente insieme nello stesso modo.

Ci sono i bambini di Ciudad Juárez che giocano alla guerra colpendosi a vicenda con i raggi di sole riflessi da frammenti di specchi rotti e non mancano i piccoli della regione belga di Pajottenland – dove è cresciuto l’artista – che si sfidano in una gara di lumache a cui hanno colorato i gusci. Sono tutti lì come se fossero davanti a noi senza alcuna retorica, perché l’artista è riuscito a instaurare con loro un rapporto di complicità tale da far sì che si comportino in modo naturale, come se non ci fosse nessuna videocamera a riprenderli.

C’è una sensibilità poetica dietro a questo progetto ma anche una profonda coscienza politica, uno sguardo laterale che è proprio degli artisti e che ci chiede di osservare il mondo da un’altra prospettiva. Interrogato sul senso di questo lavoro, Alÿs ha infatti dichiarato: «Volevo rimettere i bambini al centro della nostra attenzione, soprattutto dopo il periodo del confinamento. I bambini hanno sofferto probabilmente molto più degli altri», nonostante nella maggior parte dei casi essi siano rimasti fuori dalle discussioni e dalle preoccupazioni principali mentre la loro socialità, ancor più essenziale, veniva bruscamente interrotta.

Giochi universali

Al di là dell’attualità però, si tratta di un progetto che l’artista porta avanti da diversi anni (il primo video della serie risale infatti al 1999) e che qui viene presentato attraverso l’esposizione delle ultime riprese, realizzate nel periodo della pandemia anche in aree del mondo sfuggite alle chiusure, o che le hanno ignorate.

Ciò che affascina l’artista è il fatto che i giochi sono spesso universali e travalicano i confini geografici. È impressionante assistere al video che riprende i bambini di Hong Kong nel 2020 e di Città del Messico nel 2021 mentre si rincorrono in un gioco basato sulla metafora del contagio. Tutto inizia con un’inseguitrice che indossa una mascherina a coprire naso e bocca. La ragazzina deve toccare gli altri partecipanti in fuga per “infettarli” e infoltire le fila della sua squadra, vince chi resta immune evitando il contatto. Un passatempo infantile sorprendente ma che fa esattamente quello che il lavoro di questo artista riesce sempre a ottenere: incanta e preoccupa.

Sono diversi i video esposti all’interno di un allestimento che a prima vista può sembrare caotico e chiassoso ma che non fa altro che riprodurre l’effetto di trovarsi in mezzo a gruppi di piccoli esseri umani intenti a giocare rumorosamente tra loro. Su una serie di schermi posizionati in mezzo allo spazio e di proiezioni a parete si vedono infatti combriccole di fanciulle e fanciulli di differenti paesi intraprendere ognuno il proprio gioco.

La sensazione del visitatore è paragonabile a quella di chi si trova in un parco molto frequentato o in un cortile gremito a passeggiare tra i più giovani ed essere attratto di volta in volta dall’attività di alcuni piuttosto che di altri.

A ogni visitatore è data la facoltà di soffermarsi davanti a una scena senza che ci sia una gerarchia tra i video, poi in seconda battuta si accorge che ognuno di essi rimanda anche alle vicende travagliate del territorio in cui è stato realizzato. C’è l’idea di spazio libero e aperto, proprio come quello in cui questi bimbi e bimbe agiscono. Tutti i giochi ripresi dall’artista si svolgono infatti all’esterno per le strade, nelle piazze o nelle aree comuni, luoghi di socialità che sono da sempre oggetto della ricerca di Alÿs.

Luoghi di socialità

Francis Alÿs, Senza titolo, Bamiyan, Afghanistan, 2010, olio su tela, cm 13 x 18. Courtesy e © Francis Alÿs

In quello spazio l’artista si sofferma a osservare le comunità ritraendole nei suoi appunti visivi di viaggio di cui si trova una selezione esposta anche a Venezia. In diversi casi la delicatezza di questi minuti dipinti, dalle dimensioni trasportabili, crea un disorientante contrasto con la drammaticità di alcune delle scene raffigurate.

In un dipinto c’è un gruppo di ragazzini che corrono sventolando un fazzoletto in un apparentemente sereno pomeriggio di sole in Afghanistan, mentre un altro riconosciamo gli elicotteri sorvolano minacciosamente la zona. In un altro riconosciamo un’auto in fiamme per le strade di Ciudad Juárez.

Oltre a essere luoghi prediletti per l’osservazione, gli spazi pubblici e condivisi sono anche quelli in cui l’artista generalmente agisce. Nel 1997 Alÿs compì una fatica immensa e ingiustificata in Paradox of Praxis I. Sometimes Doing Something Leads to Nothing, spingendo un enorme blocco di ghiaccio in giro per Città del Messico fino al suo scioglimento, evidenziando i paradossi del fare in un’efficace metafora della vita.

Ancora, quando nel 2002 s’imbarcò nella prevedibilmente fallimentare impresa di spostare una duna del deserto con l’opera When Faith Moves Mountains, l’artista chiese a cinquecento volontari di salire sul promontorio di sabbia per spalare e arrivare a spostarlo solo di pochi centimetri, con uno sforzo collettivo immane. In questo caso si trattava di una sorta di allegoria degli sforzi enormi prodotti dalla società latinoamericana per introdurre riforme minime.

Non si può scordare poi l’azione che intraprese nel 2004 con The Green Line, una camminata che lo vide impegnato a muoversi sui 24 chilometri di quella linea che separa Gerusalemme est da Gerusalemme ovest, tenendo in mano una latta di vernice verde da cui il pigmento scolava tracciando a terra quel confine, che diventava allora visibile.

Consuetudini ludiche

È nel 2008 però che la sua poetica, già profondamente impegnata, volse lo sguardo in modo costante sui più piccoli e da quel momento non lo ha mai più distolto. Questo è l’anno in cui, oltre a iniziare a riprendere con assiduità i loro giochi di strada (tutti i video sono disponibili online sul sito dell’artista), realizzò Don’t Cross The Bridge Before You Get to the River, una doppia azione in cui sulle due sponde spagnola e marocchina dello stretto di Gibilterra, due gruppi di bambini misero in mare due file di barche, costruite con delle ciabatte, per farle idealmente incontrate all’orizzonte.

Di nuovo nel 2011 realizzò il film Reel-Unreel, presentato a “dOCUMENTA (13)” a Kassel, il cui punto di partenza è la consuetudine ludica del far rotolare un cerchio con uno stecco. Per l’occasione il cerchio venne sostituito da una bobina cinematografica – simbolo del racconto fatto dai media – che viene portata dai bambini in giro per la città di Kabul, restituendo umanità a un luogo disumanizzato dai resoconti e reportage di anni di guerre.

Più di recente, tra il 2018 e il 2020, Alÿs ha poi girato in Iraq il film Sandlines. The Story of History, in cui gli attori protagonisti sono i bambini di un piccolo villaggio non lontano da Mosul, che mettono in scena la complessa storia degli ultimi cento anni del loro paese.

Colpisce il modo in cui negli ultimi anni la lente d’ingrandimento di questo artista-etnografo – per usare la definizione del critico statunitense Hal Foster – sia quella delle comunità infantili. Risulta ancor più curioso poiché, come fa notare l’antropologo visuale David MacDougall nel saggio del catalogo dedicato al padiglione, anche sul piano della ricerca antropologica gli studiosi assai raramente si sono occupati delle attività dei più piccoli.

Insomma, riportando l’attenzione sui bambini – soggetti che, come denuncia il pedagogista Daniele Novara, «sono sempre gli ultimi» pur rappresentando il futuro – e in particolare su quelli che vivono in aree problematiche e disagiate, Alÿs ci mostra il suo sguardo più poetico che non smette mai di essere profondamente politico.

Dopo i durissimi anni appena trascorsi questo era esattamente ciò di cui avevamo bisogno, e non per sentirci meglio, nonostante il barlume di speranza emanato. Non c’è nulla di edificante nello stare a guardare questi bambini dalla nostra posizione di privilegio, mentre continuano a giocare nonostante le difficoltà in cui sono costretti a crescere e di cui ognuno di noi è in qualche misura responsabile.


Francis Alÿs rappresenta il Belgio alla Biennale di Venezia. Al Padiglione del Belgio, Giardini di Venezia, Alÿs presenta The Nature of the Game, un’esposizione composta da una selezione di film e da una serie di dipinti. Quasi tutti i film sono nuove produzioni.

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