Pochi film scatenano il desiderio irrefrenabile di aprire un atlante del 1917 come Grand Tour, un trip sentimentale nel tempo e nello spazio per il sud-est asiatico che ci interroga sui rapporti di coppia e sul passato colonialista. Tragicomico, poetico e a tratti picaresco, il film di Miguel Gomes ci immerge in un sogno spaesante e concettuale che è valso all’autore portoghese il premio per la migliore regia all’ultimo festival di Cannes.

Quanto l’ha cambiata questo premio? Le ha dato più fiducia in sé stesso, reso un eroe nazionale?

Non proprio, ormai in Portogallo come immagino quasi ovunque nel resto del mondo, il cinema non è più così centrale nella vita delle persone quanto poteva esserlo nel XX secolo. La vittoria a Cannes mi ha probabilmente aiutato a finanziare più velocemente i miei progetti. Prima di Grand Tour stavo lavorando su un film in Brasile intitolato Savagery, avevo quasi rinunciato a farlo perché era diventato troppo complicato, ma adesso con il premio le cose si sono sbloccate.

Perché The Gentleman in the Parlour di W. Somerset Maugham l’ha affascinata a tal punto da farne un film?

L’ho letto qualche settimana prima di sposarmi per cui è legato a qualcosa di molto personale. È come se quel libro di viaggi mi avesse chiamato prima del matrimonio. Durante la sua traversata del sud-est asiatico, Maugham ha incontrato un giovane funzionario dell'Impero britannico in Birmania che, dopo un attacco di panico prima delle nozze, è fuggito dalla sua futura sposa. Era un racconto divertente che però rispecchiava una dinamica uomo-donna che trovo molto interessante. Ho condiviso questa storia con la mia futura moglie e malgrado tutto… siamo ancora sposati, non sono scappato via, e neanche lei da me, il che è ancora più sorprendente (risate). Amo i diari di viaggio e la letteratura che ti trasporta in itinerari sconosciuti, così ho deciso di creare una struttura cinematografica che connettesse la storia di questa coppia ai luoghi in cui hanno viaggiato. Sono posti che esistono ancora e per creare una continuità tra il passato e la realtà, ho ricostruito in studio un’Asia d’altri tempi, molto artificiale, a cui ho integrato immagini documentaristiche. Il cinema non è solo ciò che vedi, è anche ciò che non vedi, e nel film uso diversi narratori che ci raccontano quello che stanno vivendo i nostri protagonisti fuori campo. Mi piace far coesistere due piani temporali diversi per fare irrompere l’oggi nel passato, mescolare i punti di vista e fare in modo che lo spettatore si proietti all’interno del film come se leggesse un romanzo.

Non crede che in un mondo dominato dal turismo di massa e da Google maps, il cinema sia rimasto uno dei mezzi migliori per viaggiare?

Con il cinema si può viaggiare in un altro modo, è un mezzo che ha ancora la capacità di catturare la vita e i luoghi suscitando lo stupore della prima volta. Certo con la moltitudine di immagini straviste che ci bombardano è sempre più difficile mantenere vivo l’incantesimo cinematografico. Io cerco di esplorare il mondo filmando le cose che mi piacciono davvero, devo lasciarmi sedurre dalla vita a cui lascio sempre un po’ di spazio nella struttura del racconto. È una ricerca ed è per questo che, prima di girare la sceneggiatura, ho intrapreso un “grand tour” in Asia durante il quale, ho cercato di catturare una sorta di archivio di immagini del presente. Ma il viaggio fatto all’inizio del 2020 è stato interrotto dalla pandemia, non potevamo entrare in Cina e così ho dovuto girare tutto da Lisbona. Stavo giorno e notte a casa a dirigere una troupe locale cinese a cui spiegavo cosa riprendere e dove mettere la macchina da presa.

Qual è il suo rapporto con la realtà? Il cinema può essere una fuga dal mondo, i due protagonisti del film fuggono l'uno dall’altro e ricordo che anche nel suo precedente Le mille e una notte il regista scappava dal suo stesso set. 

Forse dovrei parlare con uno psicanalista perché non ho una vera risposta a questo. Per me il cinema deve essere come un’avventura, vuol dire uscire di casa ma senza andare per forza lontano. Da ragazzo ero un pessimo alunno, la scuola mi annoiava mortalmente e appena potevo marinavo e scappavo al cinema. Fuggire vuol dire anche vivere, io non sono uno di quei registi a cui interessa l’intimità e la vita quotidiana. Amo la finzione e per me i mondi inventati e immaginari sono tanto reali quanto la realtà.

Tra i vari livelli del film c'è anche un elemento politico? In fin dei conti i suoi protagonisti sono due ricchi coloni inglesi.

Oggi è molto complicato girare una storia brillante ambientata negli anni delle colonie Inglese. Josef von Sternberg ci riusciva, ma era un'altra epoca. È anche per questo che abbiamo girato il film due volte: c'è il tempo dei personaggi, che è un tempo coloniale, e c'è il tempo post-coloniale di oggi. Queste due strade narrative mettono ovviamente a confronto due momenti storici che sono politicamente diversi e questo può portare a riflessioni. Il compito del cinema però non è quello di giudicare o di imporre messaggi, altrimenti diventa propaganda, io non voglio vendere nulla. I film non devono predicare, devono semplicemente dare agli spettatori gli strumenti per arrivare alle proprie conclusioni, devono creare uno spazio di incontro tra personalità, opinioni politiche e sensibilità diverse.

La sorprende il fatto di essere capito? Di toccare l’inconscio di spettatori completamente diversi tra di loro?

Sono sempre un po' sorpreso di essere capito, e a volte anche di non esserlo. C’è chi dice che Grand tour è un film filo-colonialista che ignora le ferite del passato, e chi invece pensa che sia al contrario un’opera che lavora sulla demistificazione. In un mondo dove i leader mondiali cercano di controllare e manipolare il pensiero delle persone non voglio assolutamente fare il politico, sono solo un regista che vuole restituire agli spettatori uno spazio come il cinema, per pensare con la propria testa.

Anche questo può essere visto come un gesto politico… Che cosa l’ha spinta a diventare regista?

Film, guardare film era una dipendenza. Forse il primo Indiana Jones… avevo 11 anni ed ero talmente rapito che mi ero davvero dimenticato di essere fisicamente in una sala. Con gli anni mi sono reso conto che Il cinema poteva essere ancora più grande del film di Spielberg, che c’erano altri modi di raccontare storie, di conoscere il mondo e di esplorare rapporti umani. È successo quando ho scoperto a circa 17 anni autori come Godard o il cinema portoghese che non conoscevo. Ho capito che potevo girare dei film anche nel mio paese, come i grandi João César Monteiro, Pedro Costa o ovviamente Manoel de Oliveira, dei pazzi che realizzavano opere fuori da ogni schema. Anche il cinema italiano mi ha formato molto: Rossellini e il suo Francesco giullare di Dio, o Estate violenta di Valerio Zurlini sono stati delle vere rivelazioni. Il cinema è cresciuto sempre di più nella mia testa diventando il mio mondo ma per farlo c’è voluto tempo perché l’arte e la creatività si nutrono di vita, non solo di opere di riferimento.

Lei è stato anche un critico cinematografico, che cosa ricorda di quegli anni e oggi che rapporto ha con la critica cinematografica?

Ero un pessimo critico e infatti nessuno mi voleva, il che era comprensibile. Sono stato presentato in un giornale da una mia amica ed è un lavoro che ho fatto tra il 1996 e il 2000 perché non avevo nient’altro da fare. Non ho cambiato idea sulla critica e la difenderò sempre. Anzi, credo che oggi è ancora più importante non solo per i cineasti ma anche per la società. In un mondo in cui chiunque si può esprimere sui social network senza riflettere più di un secondo e in cui c’è sempre meno spazio per il cinema sui media tradizionali, lo sforzo di un critico che dedica il suo tempo a condividere la sua esperienza cercando un dialogo con i film è quasi eroico.

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