Sono stata una bambina molto strana. Soffrivo di misofonia, parola sconosciuta all’epoca, e ogni mia manifestazione di aggressività verso “i mangiatori di patate”, chiamavo così chi mangiava rumorosamente ispirandomi a van Gogh, risultava bizzarra. Dalle stampe del famoso quadro che circolavano nei libri d’arte non potevo sentire il rumore, ma io lo sapevo, che loro erano rumorosi.

Ero diversa anche per altri motivi. Alla domanda cosa farai da grande, le mie coetanee rispondevano, servirò la patria ovunque essa avrà bisogno. Io invece, volevo fare la cortigiana. La prima volta che lo dissi a mia nonna avevo dodici anni. Mi colpì con un mattarello in testa.

Tu, sarai la nostra rovina, disse. Tutta colpa di tuo padre che ti fa leggere libri con quelle donne poco di buono, le Karenine e le Bovary ti stanno rovinando! Al plurale, quelle come loro erano una categoria, le protagoniste nel realismo socialista erano invece solo positive.  

La verità è che a me Emma Bovary, non piaceva poi tanto. Nutrivo una certa simpatia per quella manipolatrice di Becky Sharp, l’arrivista senza scrupoli del romanzo Vanity Fair dello scrittore inglese W.M. Thackeray. Ma non si poteva dire, mentre per le altre due il mondo si divide, per lei no, è condannata da tutti. Forse mi piaceva perché l’unica cosa che amava era ciò che non poteva avere. Ci accomunava solo questo, oltre la vanità ovviamente.

Con la mia vanità io avrei macchiato il buon nome della nostra stirpe che in sette generazioni contava solo una puttana nel suo albero genealogico ed era ancora in via di riabilitazione a causa sua. Questa notizia arrivata da mia nonna, in un lungo racconto pieno di pianti e singhiozzi, mi ha scosso parecchio.

Io avrei voluto essere la prima, sono molto competitiva in tutto. Quella mia ava che mi aveva preceduto, aveva lasciato il marito perché si era innamorata di un altro. Io puntavo più in alto, intanto un marito non lo volevo, io volevo diventare una cortigiana come quelle di Balzac e non una donna di villaggio che scappa di notte come una ladra con il suo amante.

Sognavo grandi cappelli in testa e vestiti di seta che mi disegnassero il corpo. Gli uomini che mi avrebbero guardata, avrebbero perso la testa per me, e le mie notti insonni piene di sofferenze e sospiri avrebbero reso la mia pelle diafana, sublimando la mia bellezza tanto da diventare una leggenda.

Donne e comunismo

Non sono diventata una leggenda e nulla di tutto questo è accaduto. La tribù delle donne della mia famiglia, aveva previsto come la migliore delle ipotesi per il mio futuro, il ripudio da parte di mio marito. In altri tempi mi sarei meritata una pallottola in testa, dal padre o dal marito legittimati entrambi. Per mia fortuna, erano arrivati i comunisti e le donne non si potevano più uccidere come una volta. Anche quella poco di buono che mi aveva trasmesso il sangue guasto, si era salvata proprio grazie al comunismo, se le era cavata con la testa rasata, oltre al danno irreparabile causato al buon nome della famiglia.

Bisogna riconoscere che i comunisti per le donne del mio paese hanno fatto davvero tanto. Quel russo che voleva costruire l’uomo nuovo sovietico ha costruito anche quello albanese, nel pacchetto ovviamente erano comprese anche le donne. Erano diventate all’improvviso libere come gli uomini, oltre a diventare medici e insegnanti, loro guidavano trattori e battevano il ferro nelle fabbriche metallurgiche, facevano persino i soldati con grandi fucili sulle spalle. Una società di parità tra i sessi mai vista prima, soprattutto per un paese che aveva vissuto 500 anni di impero ottomano.

Mia madre usciva di casa insieme a papà ogni mattina per andare a lavoro, entrambi facevano gli insegnanti, e tornavano a casa alla stessa ora. Papà di pomeriggio usciva con gli amici, niente di straordinario a dire il vero, andava al club degli scacchi per tenere allenato il cervello. Mamma il cervello lo teneva allenato pulendo la casa e occupandosi di noi bambini.

Crescendo ho iniziato a fare delle domande, se ci hanno liberate loro, cioè gli uomini, da chi e cosa ci hanno esattamente liberato? Oggi, con un certo orgoglio posso dire che sono stata una femminista in erba, senza saperlo avevo intuito quello che Rosa Luxemburg aveva realizzato al suo tempo, il doppio sfruttamento della donna nel socialismo reale.

Tendenzialmente ho delle buone intuizioni, mi capita tutt’ora che quando mi esprimo qualcuno dica con stupore, apperò. Lo prendo come un complimento.

Tornando a mia nonna, voi potete studiare e lavorare e avere persino un vostro stipendio in soldi veri e vi lamentate pure? Diceva lei.

Forse aveva ragione, la cosa che mi faceva soffrire di più, era che le donne a un certo punto erano diventate uguali all’uomo anche fisicamente, capelli corti, pantaloni stile maoista, vestiti per il tempo libero della stessa stoffa e degli stessi modelli. Parità tra i sessi in tutto e per tutto. 

Monetizzare le sofferenze 

Anni dopo, una volta in occidente, lessi qualcosa sulla vita di Gabrielle Coco Chanel, lei per creare le sue borse, quelle intramontabili che continuano a vivere senza di lei, dopo di lei, si era ispirata all’uniforme dell’orfanotrofio dove era cresciuta, il colore era dei vestiti che indossavano tutti e le catene simili alle chiavi che chiudevano le porte.

E ho immaginato il mio paese come un enorme orfanotrofio, circondato da guardie che ci tenevano dentro. Sono stata fortunata mi sono detta, con un passato così posso entrarci anch’io nella storia, il segreto sta nel monetizzare le sofferenze, è questo che fanno i grandi artisti. Nonostante il mio passato non ho creato ancora nulla che possa rendermi immortale come lei, forse perché non ho sofferto abbastanza.  

Sono stata ossessionata dal fatto di dover entrare nella storia, a tutti i costi, per qualsiasi motivo.

È proprio per questo che partecipai al primo concorso di bellezza subito dopo la caduta della dittatura. Avevo deciso di portare alla rivoluzione il mio corpo, La rivoluzione sessuale di Whilelm Reich era stata chiara, il comunismo aveva fatto la stessa cosa che il capitalismo aveva fatto in altri paesi, aveva massimizzato il profitto copiando per filo e per segno la morale sessuale borghese e applicandola scientificamente alla società socialista, ecco perché la donna non doveva essere desiderabile, e per arrivare a questo si puntava a renderla uguale all’uomo in tutti i sensi.

È stato un altro appuntamento mancato con la storia e non perché mi abbiano squalificata. Avevo superato la prima selezione, anche se a onor del vero, in quel concorso non si erano presentate proprio le più belle, ma le più coraggiose.

È stato mio padre, lui da maschio padrone mi ha prelevata con forza da quel palco, mi ha trascinata per il braccio sotto gli occhi di tutti.

Papà, balbettavo io rossa in viso per la vergogna (l’imbarazzo non era rivolto a lui, ma alle altre fortunate emancipate senza padri padroni) noi stiamo facendo una rivoluzione!

Se mostrare il tuo culo a una giuria davanti a tutta la nazione per te è una rivoluzione, tutti i libri che ti ho fatto leggere sono stati uno spreco!

Una donna libera

Sono diventata adulta cosi, in totale confusione, mio padre mi faceva leggere tutto il tempo, per essere una donna libera, diceva lui, la mamma, quella donna emancipata (fisicamente uguale a papà) schiacciata tra lavoro e famiglia non aveva mai tempo per me, la nonna invece vigilava per non macchiare l’onore della famiglia con il ripudio che pendeva sulla mia testa.

Non sono mai stata ripudiata, almeno questa profezia poteva avverarsi, non per altro, ma per dare ragione a mia nonna alla quale ho voluto un gran bene, glielo dovevo credo.  

Arrivai con questo bagaglio in occidente, una giovane donna sopravvissuta a una dittatura.

Finalmente potevo essere femmina, avrò tutti i vestiti belli che ho sognato, metterò tacchi alti e calpesterò tutti i boulevard del mondo, pensavo eccitata per lo splendido futuro che mi aspettava nel mondo libero.  

Avevo trovato un bel lavoro all’inizio, dove contava la preparazione e il cervello e l’empatia anche, lavorare per i diritti umani è fondamentale, bisogna avere una buona dose di volontà per riparare i danni dell’umanità. Ma non mi bastava. Nulla sarebbe bastato a una donna ambiziosa che arrivava dal terzo mondo come me. Cercavo altri lavori dove era richiesta la bella presenza, sono traumi anche questi, voglio dire, a crescere come un maschio è normale quella matta voglia di sbattere in faccia al mondo la tua bellezza.

Un giorno risposi a un annuncio dove si richiedeva bella presenza, qualcosa che avesse a che fare con le hostess dei congressi durante fine settimana. Stavano cercando proprio me.

Il titolare durante il colloquio mi chiese se avessi la cellulite. No, risposi, ma posso procurarmela subito! Nel frattempo le lascio quello fisso! Nella confusione linguistica avevo capito male, non era il telefono mobile che volevano da me.

Capii con un certo dolore che non ero che una donna dell’est, quelle si sa che avevano avuto una libertà sessuale diversa dalla morale borghese. Ho scoperto con stupore che noi altre, le orfane del socialismo reale, eravamo state sessualmente libere e non lo sapevamo, lo stavamo scoprendo in occidente che eravamo state invidiate da tutti.

Volevo combattere questi atteggiamenti maschilisti, io in fondo ero una femminista, dovevo solo trovare le mie compagne di battaglia. Ma se continuavo a vestirmi con abiti succinti e a trottolare sui tacchi alti, non ci voleva tanto a capire che lo facevo per compiacere gli uomini, per essere guardata e desiderata, finché esistevano quelle come me, loro avrebbero vinto sempre.

Ero una donna di sinistra, femminista anche, perché faticavo a trovare il mio posto? Le donne mi snobbavano abbastanza, forse perché loro portavano i pantaloni e io no, all’inizio ero perplessa nel sapere che fosse una loro scelta e non di un segretario del partito che decideva come dovevano vestirti.

Oltre i pantaloni portavano anche borse di juta dell’emporio indiano e camperos, rigorosamente comperati da cooperative di donne create nel terzo mondo, per aiutarle. A casa avevano sempre quella che chiamavano “la mia donna” e faceva i mestieri domestici mentre loro andavano a salvare il mondo, e giustamente il pronome possessivo “mia” non era per dire che fosse solo loro e di nessun’altro, ma per ribadire che non era una colf ma una donna di famiglia.

Dentro fino al collo

Ero affetta da degenerazione capitalista, le code esasperanti per accaparrarsi i beni di prima necessità con il tesserino del razionamento e le austerità comuniste avevano generato in me una tale frustrazione che mi aveva portato ad un consumismo malato. I miei vestiti e le mie borse (che compravo ovviamente con i soldi guadagnati) avrebbero sfamato interi villaggi del terzo mondo.

Quando ho creato anche una famiglia ho capito che ero un caso perso, ero scappata per non creare la famiglia socialista, e invece avevo creato quella cattolica. Dopo aver messo al mondo tre figli, ero definitivamente una vittima del patriarcato. Mia nonna era stata una collaborazionista, a modo suo anche mamma, cosa ci si poteva aspettare da una come me? Del resto qui parlavano di maternità soprattutto le donne che non avevano figliato, del femminismo chi non aveva vissuto il patriarcato, giustamente, una che si piega al patriarcato come fa a combatterlo se ci è dentro fino al collo, proprio come lo ero io?

Ora scrivo romanzi, narro storie, ma di quelle storie si parla raramente. Mi trovo in uno studio televisivo o anche in un festival dove devo presentare un mio romanzo e dietro alle mie spalle un grande schermo, di solito per tutti gli scrittori si mette la copertina del romanzo. Io inizio a parlare, ignara che dietro scorrano le immagini delle prime navi che toccarono le Puglie, persone arrampicate, il porto di Bari, corpi ammassati ovunque. Sono tutti ossessionati da quelle navi, sono diventate la pietra miliare della storia del cambiamento dell’Italia, da paese di emigrazione a quello di immigrazioni.

Il razzismo economico

Devo esserne fiera, io che nell’immaginario di tutti sono una scesa da quelle navi oggi parlo a grandi platee di persone, ma chissà perché sono solo triste e arrabbiata, sicuramente è solo colpa mia se non mi accontento di ciò che il nuovo paese mi ha dato. 

Ho anche una patente senza data di scadenza che mi autorizza a parlare di razzismo, quelle domande non mancano mai, non lo vivo e non sono una sociologa, ma non importa a nessuno. Sono albanese e questo basta. Ma dico io, ancora non si è capito che il razzismo non è un fatto culturale ma economico? E vista la mia degenerazione capitalista e la compulsione nello spendere tutto in oggetti di lusso, qualcuno per strada si fermerebbe mai a cercare le origini della mia razza sul mio volto?

A volte penso che avrei potuto inventarmi anche un mestiere e costruirmi una carriera su questo, potevo fare l’abanese a vita, tanti in questo paese si sono creati una carriera così, io mi ostino a rifiutare.

Far parte di qualcosa di più grande di te è rassicurante, del resto sono abituata alla collettività e mi trovo in solitudine. La letteratura di oggi sta celebrando la rinascita di tante piccole patrie, dove ogni scrittore racconta il suo suolo, ciò che riesce a vedere intorno, e io qui sono orfana. E come tale non posso celebrare nessuna rinascita, posso solo piangere a vita la morte della patria di prima. Ma chi vuole passare una vita in lutto? Non io.

Volevo essere Madame Bovary (Einaudi) l’ho scritto abitata da questi sentimenti. Madame Bovary c’est pas moi (per citare qualcuno) ma avrei potuto esserlo, in una narrazione diversa in cui il mio personaggio, che voleva essere femmina e libera allo stesso tempo, finalmente avrebbe trovato il suo posto in quel mondo libero che tanto aveva sognato. O forse sì, proprio per questo Madame Bovary (non la Emma di Flaubert, ma Hera del mio romanzo) sono proprio io.

© Riproduzione riservata