All’inizio dell’adolescenza, come accade a molti, ho attraversato un momento difficile. Senza motivi scatenanti e quasi senza rendermene conto mi sono ritrovato in una condizione non facile da descrivere e che ancora adesso considero il momento più complicato della mia vita.

Non uno stato particolarmente doloroso ma delle sabbie mobili dell’anima dalle quali non capivo come uscire. In altre parole: non mi sentivo felice. Quello che ho letto e ascoltato negli anni successivi riguardo i disturbi depressivi è quanto, se pur alla lontana, mi sembra somigliare di più al malessere che provavo.

Il consiglio

All’epoca facevo parte dell’associazionismo cattolico – frequentavo riunioni settimanali, campi estivi, suonavo l’organo la domenica e mi confessavo – e un giorno, mentre provavo a descrivere a un sacerdote cosa mi stava accadendo, lui mi interruppe suggerendomi senza troppe spiegazioni di trovare «qualcosa per cui vivere e morire». Lo disse senza enfasi e con tono pratico, come a volermi distogliere dalla trappola delle mie elucubrazioni.

Mi imbarazza riportarla letteralmente ma di fatto quella formula così enfatica ebbe grande effetto sul me quindicenne e sono sempre stato convinto che anche grazie a quella conversazione io abbia iniziato a incanalare domande, tristezze, insicurezze, delusioni e rabbia (ma anche gioia, desiderio, amore) nella creatività e abbia deciso di dedicarmi con tutto me stesso a scrivere canzoni e suonare.

In questo modo ho trovato una via per dare sfogo a quello che provavo e, allo stesso tempo, una chiave per compattare la mia vita intorno a un percorso che mi appariva chiaro, percorrendo il quale potevo dire chi ero a me stesso e agli altri.

Ho ritenuto così utile questa ricetta che in seguito, peccando di ingenuità, mi sono trovato più volte a consigliarla a amiche o amici che mi sembrava ne necessitassero senza pensare che quello che era stato utile per me non sarebbe stato necessariamente il meglio per loro.

Vivere per il lavoro

Se oggi, a 41 anni, penso alla felicità mi torna in mente questo episodio e mi faccio delle domande. Cosa voleva dirmi padre Sauro quel pomeriggio? Era davvero così secolare la strada che mi indicava con le sue parole (che, nella pratica, io ho tradotto nell’individuare un’attività che mi si confacesse e quindi, più prosaicamente, un lavoro) oppure ho interpretato il suo consiglio a mio uso e consumo nascondendo dietro un idealizzato percorso d’artista quella che è (anche) una comunissima corsa alla carriera?

Sauro era talmente consapevole del sistema all’interno del quale sarei vissuto e così acuto nel leggere la mia personalità da avermi saputo fornire lo strumento più adatto, per uno come me, per cavarsela nella vita adulta? Oppure persino lui era vittima di questo sistema e della sua ideologia e, senza rendersene conto, in questo modo mi ha consegnato nelle mani dei miei carcerieri? Era, la sua, una ricetta per tutti o era pensata solo per me? Ma soprattutto: seguire il suo consiglio mi ha difeso dall’infelicità?

Per molti anni ho pensato di sì: il lavoro occupa uno spazio così ampio della nostra vita (sia in termini di tempo che, specie nella nostra società, di peso specifico) che mi sembra naturale dedurne che viverlo facendo qualcosa che amiamo o almeno che ci piace sia un ottimo presupposto per stare bene.

Allo stesso tempo, anche se non cambierei molto di come ho impiegato questi anni e anche se trovo che dedicarmi a fare il cantante mi abbia fatto bene da molteplici punti di vista, mi vergogno di quanto individualisticamente ho interpretato le parole di quel giorno e sempre di più sento l’esigenza di cambiare chiave di lettura e ridefinire la mia idea di felicità.

Da una parte mi chiedo come sia stato possibile che al radicalismo di “qualcosa per cui vivere e morire”, nella stagione più idealista della vita, io abbia associato – in sostanza – esclusivamente il mio benessere senza prendere in considerazione aspirazioni più universali come ad esempio la giustizia o l’eguaglianza.

Dall’altra non sono così sorpreso perché quotidianamente, osservando me e gli altri, verifico quanto la nostra idea di felicità spesso non corrisponda a nient’altro che a una solipsistica impellenza a accumulare che rilancia costantemente l’orizzonte del desiderio (astratto o materiale che sia) e non si sazia mai. Penso che sarò felice se avrò questo o quello ma, sistematicamente, lo ho e non lo sono.

Mi domando allora se alla base di tutto non ci sia un malinteso.

Lasciare andare

L’etimologia della parola felicità, condivisa con la parola fecondità, discende dal verbo greco φύω che vuol dire produrre, generare. Il suo significato è connesso alla prosperità e alla realizzazione dei desideri e proprio con l’appagamento dei desideri coincidono anche la descrizione che Dante dà della felicità o, se pure più articolato, il senso che le attribuivano gli illuministi.

Mi sembra quindi consequenziale a queste premesse il fatto che felicità sia un termine così in auge in questa epoca di egocentrismo e consumo e che, per quanto mi sforzi di ricordare, non ricorra spesso nelle poesie e nelle pagine di letteratura italiana intrise di indottrinamento cristiano che ho studiato al liceo (la felicità era pertinente a un altro mondo).

Tuttavia, nonostante la felicità coincida chiaramente con l’ottenimento di qualcosa, la nostra società spesso la narra come uno stato di gioia o beatitudine che fa pensare quasi a una versione appena più frizzante della “pace” descritta dalle filosofie orientali la quale, però, corrisponde al suo esatto contrario: lasciare andare piuttosto che prendere, accettare invece che rivendicare.

Noi cerchiamo di essere felici ma forse incorriamo, più o meno consapevolmente, nello stesso errore che ho fatto da ragazzo: capiamo quello che ci va di capire. Così corriamo a destra e a manca alla ricerca della felicità ma non ci sentiamo felici quasi mai perché siamo talmente confusi su cosa sia che non abbiamo certezza nemmeno del suo nome, figuriamoci dell’indirizzo.


La felicità è la nuova canzone di Giovanni Truppi in uscita il 30 settembre per Virgin Music Las/Universal Music Italia, scritta e prodotta insieme a Marco Buccelli e Niccolò Contessa, che prosegue il percorso di avvicinamento al nuovo disco del cantautore napoletano

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