Annunciando la “fine dell’abbondanza”, il presidente francese Emmanuel Macron è stato il primo leader politico occidentale ad avere avuto il coraggio di dire una verità che meritava di essere detta. 

Ma da che pulpito viene la predica? Connotato dalla sua precedente carriera di banchiere e dalla sua riforma per detassare le grandi fortune, insomma da una reputazione di “candidato dei ricchi”, a Macron mancava probabilmente la statura per farsi prendere sul serio sul tema.  Le reazioni all’annuncio sono state virulente, tra chi lo ha accusato di preparare nuovi tagli per compiacere l’oligarchia a chi ha reagito cadendo dal pero: abbondanza? Quando mai avremmo vissuto nell’abbondanza?

Una scomoda verità

La cattiva notizia è che l’abbondanza in Occidente l’abbiamo effettivamente vissuta – chi più, molto di più, e chi meno, molto di meno – grazie allo sfruttamento intensivo delle risorse materiali e umane del pianeta. Il prezzo di questa abbondanza sono gli squilibri ambientali e geopolitici oggi sotto gli occhi di tutti. 

Ora che “essere alla canna del gas” rischia di diventare un lusso, dovremmo cominciare ad accorgercene. E invece non lo faremo; perché abbondanza è un concetto molto relativo, agganciato ad aspettative socialmente costruite. La differenza tra abbondanza e scarsità non la fa la realtà bensì l’estensione dei nostri bisogni. E chi ha più bisogni – sia pure artificiali – dei membri di una società complessa?

Le reazioni rabbiose alle parole del presidente francese tratteggiano in nuce quello che sarà, anche da noi, il dibattito pubblico dei prossimi anni. Primo problema: come affrontare la fine dell’abbondanza senza che le soluzioni proposte accentuino ulteriormente le ineguaglianze? Sono ancora fresche le proteste dei Gilets jaunes, sorte nel 2018 in reazione a una proposta di aumento delle tasse sul carburante che colpiva duramente la classe media della “Francia periferica”. Secondo problema: come gestire il malcontento di una popolazione talmente assuefatta allo stile di vita imperiale della società dei consumi da essersi sinceramente convinta di non avere mai vissuto, dal Dopoguerra a oggi, nessuna epoca di abbondanza?

Se il primo problema è più direttamente politico, il secondo chiama lo sforzo teorico congiunto della filosofia, dell’antropologia, della sociologia e della psicologia: la questione tocca la sfera dell’immaginario. A molti appare inaccettabile riconoscere di avere vissuto nell’abbondanza perché di tutta evidenza non l’hanno percepita come tale. 

L’ultimo mezzo secolo ha visto il trionfo di un immaginario dell’abbondanza che si è radicato profondamente nella società: ma come si è costituito? e come possiamo immaginare di trasformarlo per raccogliere la sfida di un mondo post-abbondanza?

Dall’abbondanza alla scarsità

Proviamo innanzitutto a prendere sul serio la domanda: quando mai avremmo vissuto nell’abbondanza? Il concetto di “società dell’abbondanza”, “opulenta” o “del benessere”, in inglese “affluent society”, data del 1958 con la pubblicazione dell’omonimo libro dell’economista John Kenneth Galbraith. 

Inutile precisare che l’abbondanza non è mai stata equamente distribuita né all’interno dei cosiddetti paesi ricchi né tantomeno al loro esterno; tuttavia il termine è idoneo a descrivere una tendenza generale caratterizzata sia dall’accesso di una quota massiccia della popolazione alla classe media che dalla sconfitta delle forme più estreme di povertà assoluta. Numerosi indicatori quantitativi possono essere mobilitati per dare corpo all’idea di abbondanza: non soltanto il Pil ma anche l’Human Development Index, che vede nord e sud nettamente distaccati. 

Più utile sarà invece aggiungere due caveat. Primo, l’abbondanza materiale non necessariamente coincide con il benessere sociale e psicologico: anzi le ricerche sulle nevrosi e le devianze associate allo sviluppo sono tra i filoni più rappresentativi delle scienze umane-sociali del Novecento. Forse anche per via di tutti quei bisogni che continuiamo a produrre.

Secondo, i paesi ricchi vivono da mezzo secolo una continua decelerazione dell’incremento del loro tasso di crescita economica e subiscono crisi ricorrenti, tant’è che lo storico Eric Hobsbawm aveva definito “crollo” la terza fase del Secolo breve. In questa fase non sono venute meno le caratteristiche generali della società dell’abbondanza, come l’accesso di una maggioranza della popolazione ai beni di consumo.

Tuttavia si sono manifestate in quasi tutto l’Occidente diverse disfunzioni, a partire dal decennale scollamento della quota del reddito da lavoro dagli incrementi di produttività, passando dalla sovraccumulazione di capitale finanziario e dall’aumento ipertrofico della pressione fiscale sulle attività produttive. Fenomeni sufficienti per immettere una certa dose di pessimismo al cuore stesso della società dell’abbondanza.

Schiavi energetici

Il crollo descritto da Hobsbawm iniziava, nel 1973, proprio con una crisi energetica: il cosiddetto primo shock petrolifero. Da lì entrò nel vocabolario la parola Austerity. Come sarebbe apparso chiaramente negli anni seguenti, quella crisi non era soltanto energetica ma coinvolgeva aspetti strutturali dell’economia, della società e delle relazioni internazionali. 

Lo shock era servito a ricordare un dato essenziale, che periodicamente dimentichiamo finché qualcuno non ce lo ricorda di nuovo, ovvero la dipendenza del nostro sistema economico “opulento” da risorse materiali scarse. Risorse che abbiamo potuto sfruttare a lungo in virtù della nostra posizione di forza nel sistema del commercio internazionale: ovvero fintanto che avevamo qualcosa da fornire in cambio, foss’anche una minaccia di ritorsione militare.

Quanto è profonda la nostra dipendenza? Se confrontiamo l’apporto delle fonti energetiche al lavoro fornito da un singolo essere umano, scopriamo che ognuno di noi fa lavorare in ogni momento l’equivalente di oltre 400 persone: “schiavi energetici”, come sono stati definiti. 

Secondo lo storico Jean-François Mouhot è precisamente la possibilità di sostituire gli schiavi in carne ed ossa con le macchine ad avere reso possibile la rivoluzione da cui è sorta la modernità politica: a renderci tutti liberi e uguali sono stati i combustibili fossili. Ma cosa succede se, per cause di forza maggiore, modifichiamo questa condizione di partenza? In questo caso non abbiamo garanzie che il sistema regga. Nessuno dei principi che abbiamo dato per scontato negli ultimi duecento anni, dai diritti umani in giù, sarebbe più operante.

Dalla delusione alla rabbia

Se facciamo ancora fatica a riconoscere l’abbondanza in cui abbiamo vissuto, è perché evidentemente l’abbiamo data per scontata. Da una parte, secondo il più classico schema di funzionamento dell’ideologia, abbiamo occultato i rapporti di produzione: la divisione internazionale del lavoro ha contribuito a tenerci a distanza dall’origine del nostro benessere. Questo occultamento era necessario per non guastare l’illusione di una superiorità morale dell’Occidente. Come diceva Bismarck, nessuno vuole davvero sapere come vengono fabbricate le salsicce.

D’altra parte, l’ampia disponibilità di beni materiali ha modificato gli standard di vita allineando la soglia del nostro “minimo vitale” alle esigenze di una competizione sociale permanente. Nelle civiltà complesse non è necessario il necessario; è necessario tutto il superfluo necessario per ottenere una posizione nella gerarchia sociale. Così l’abbondanza assoluta ha generato una scarsità relativa, e da relativamente agiata la classe media ha iniziato a percepirsi come classe disagiata.

Necessità fisiologiche a parte, il grosso dei bisogni umani è determinato dall’abitudine, da modelli di comportamento, dai valori, ovvero da una “seconda natura” di ordine culturale. Difficile immaginare che si possa recedere da questa seconda natura con la sola forza della volontà. Difficile, soprattutto, immaginare che accetteremo di buon grado il grande declassamento che si prepara: più probabile che, a immagine delle reazioni all’annuncio di Macron, la classe disagiata trasformerà la sua delusione in risentimento e poi in rabbia.

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