Approfitto dell’opportunità gentilmente offerta da Domani di raccontare la genesi de La stazione, il mio thriller appena pubblicato da Giunti, per confessare subito una cosa: in realtà non è il mio primo romanzo, bensì il secondo. Il primo l’ho scritto nel 1978, in quinta elementare. S’intitolava Il Triangolo delle Bermude e constava di 34 pagine scritte a macchina.

Amorevolmente ciclostilato e graffettato in un’edizione limitata di una ventina di copie dai miei genitori, era stato distribuito per Natale a parenti e amici. La premessa narrativa – non proprio il massimo della verosimiglianza – era che io e tre miei compagni di classe, tutti decenni, ottenevamo dalle nostre famiglie il permesso di imbarcarci da soli per una crociera alle Bermude dove ci attendeva una sequela di fantastiche avventure con tanto di mostri marini e altre amenità del genere.

Galvanizzato dall’unanime successo di pubblico, avevo iniziato a pensare a un nuovo romanzo. L’idea era più o meno questa: un tirannosauro – non so bene spuntato da dove – attaccava Milano seminando morte e distruzione, finché i due enormi cavalli alati di pietra che torreggiano sulla facciata della stazione centrale – non so bene in che modo – prendevano vita per affrontarlo. Alla fine non ne feci nulla. Con la volubilità tipica dei bambini, lasciai che altri interessi mi distogliessero dalle mie velleità letterarie.

Oscura fascinazione

Il motivo per cui mi sono dilungato su questo aneddoto apparentemente anodino e ozioso è che, come mi sono reso conto durante la stesura, La stazione va davvero, sotto certi aspetti, considerata il seguito di quel mio primo cimento narrativo, che ha dovuto attendere trentacinque anni prima di vedere la luce. Il tirannosauro si è perso per strada, la centrale però è rimasta, conquistando il centro della scena.

Della remota idea originaria è perfino possibile rintracciare un’eco fugace in un passaggio del libro: «Sugli spalti della centrale, indifferenti a quanto accadeva sotto di loro, i due mastodontici cavalli alati sembravano fiutare l’aria notturna con le narici di marmo, pronti a spiccare il volo da un momento all’altro».

Se dunque la prima scintilla del romanzo mi si è consapevolmente accesa in testa nel periodo stesso in cui si svolge, i primi anni Duemila, mentre leggevo un articolo su quello che sarebbe diventato noto come il “binario 21”, il binario sotterraneo della centrale da cui durante la Seconda guerra mondiale partivano in segreto i convogli carichi di deportati diretti verso i lager nazisti, le sue radici affondano ancora più indietro, nell’oscura fascinazione che quell’edificio colossale e vagamente minaccioso all’ombra del quale sono nato e cresciuto – casa dei miei era lì a due passi – ha sempre esercitato su di me, fin da piccolo. Ed è forse proprio per questo che, come hanno riconosciuto molti dei suoi primi lettori, uno dei principali meriti del romanzo risiede proprio nella forza con cui è resa l’ambientazione.

Personaggio a pieno titolo più che semplice sfondo delle vicende narrate, che non avrebbero potuto svolgersi da nessun’altra parte, la centrale non è solo uno dei monumenti simbolo della città e una delle sue principali porte di accesso. A partire dalla sua inaugurazione nel 1931, in pieno fascismo, la storia di quella «cattedrale del movimento», come l’ha definita il suo architetto Ulisse Stacchini, è indissolubilmente intrecciata con quella di Milano, anche in alcune delle sue pagine più buie, e può essere utilizzata come una sorta di cartina tornasole capace di rivelarne il livello di degrado sociale.

Tutte tematiche che ho affrontato nel libro, innestandole in una cornice romanzesca che ha trasformato la stazione in un ibrido tra una casa infestata e una «isola misteriosa» – quella di Verne, ma anche quella di Lost –, un luogo abitato dai fantasmi del passato, teatro di avvenimenti inspiegabili che i protagonisti si affannano a decifrare.

Traversata oceanica

Sospettavo fin dall’inizio che sarebbe stato un romanzo corposo – del resto, l’omaggio a un edificio che ha nel gigantismo la sua cifra distintiva non poteva che avere dimensioni analoghe – ma ho cominciato a rendermi pienamente conto del guaio in cui stavo andandomi a ficcare solo quando, scritto quello che nelle intenzioni iniziali doveva essere un prologo di poche pagine, mi sono ritrovato con un primo capitolo di quasi quaranta.

Otto anni dopo, guardandomi indietro, mi sembra di essere reduce da una traversata oceanica in solitaria senza né bussola né gps, nel corso della quale non avevo altro che mare sia di fronte che alle spalle e nessun modo per capire se la rotta che stavo seguendo fosse giusta.

Si è rivelata di gran lunga l’impresa più ardua e faticosa che abbia compiuto in vita mia, e a ben pensarci decidere di esordire con un’opera del genere non è stata probabilmente l’idea più furba che potesse venirmi.

Se avessi avuto anch’io una vocina nella testa come quella – lontana parente del grillo parlante di Collodi e dell’armadillo di Zerocalcare – con cui bisticcia di continuo Riccardo Mezzanotte, il protagonista de La stazione, me l’avrebbe decisamente sconsigliato.

Ma nonostante Mezzanotte sia il meno autobiografico dei personaggi, su un punto concordo con lui: seguire la voce della ragionevolezza e della convenienza non è per forza la scelta migliore. «Se l’avesse sempre ascoltata si sarebbe risparmiato un sacco di guai, ma non avrebbe nemmeno fatto alcune delle cose di cui andava più orgoglioso». Almeno per quanto riguarda La stazione, posso dire lo stesso.


Jacopo De Michelis è autore del libro La stazione, edito da Giunti

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