Romano Talevi è anche un musicista. Scrive rock ballad urbane, e le canta. L’ “anche” è di rigore perché di base è uomo di teatro, attore, regista, drammaturgo: in scena è stato Macbeth, Riccardo III, Cyrano, ha scritto e messo in scena spettacoli di successo come  Tangenziale e Sabbie, dedicato alla memoria di Ilaria Alpi.

Ama Shakespeare più di ogni altra cosa ma è anche un volto delle fiction, Una donna per amico, La squadra, Suburra. È nel cast del Dostoevskij tv dei fratelli D’Innocenzo. È apparso in quattro film da grande schermo, ma nel corso di un trentennio. Provate a fare il suo nome a qualunque spettatore abituale di cinema, anche il più rodato: nove su dieci, il nome non gli dirà niente.

Ora forse cambierà tutto, a condizione che gli amanti della fruizione non omologata, controcorrente, si regalino l’emozione del suo primo film da mattatore assoluto, Bassifondi, in sala dal 15 giugno. Tutt’altro che un feel good movie, un’esperienza struggente e devastante insieme, legata a un’interpretazione che oltraggia e seduce, che lascia cicatrici negli occhi e nel cuore.

Dopo l’anteprima del film alla Festa del cinema di Roma, pochi mesi fa, qualcuno ha scritto che Romano Talevi meriterebbe tutti i premi censiti, Nobel incluso. Parliamo di una rivelazione assoluta che va per i 66 anni. Viene da chiedersi quanti talenti sorprendenti come il suo la nostra industria dell’entertainment lasci sommersi, ignorati, sprecati nel migliore dei casi a fare tappezzeria, nel peggiore semplicemente alla fame, deportati nell’acquitrino dell’oblio.

Senza Mario Martone, Toni Servillo sarebbe rimasto in teatro, privando il nostro cinema di una immensa risorsa. Quanti attori così teniamo in panchina, perché non fanno appeal, non portano (secondo i produttori) pubblico in sala?

Storia di un talento

Bravi così non si nasce, ci vuole storia. «Ho cominciato ragazzo, negli anni Settanta, facendo teatro di strada», racconta Talevi, che di natura è decisamente schivo e pochissimo incline a sgomitare, «con una comune in cui facevamo i clown girando l’Italia senza fissa dimora.

Bravi i miei, che mi hanno permesso di fare queste scelte a 16 anni. Raccontavamo la vita di tutti i giorni, cronache di emarginati, facevamo spettacoli politici nelle università occupate». Ha fatto i suoi bravi studi, l’Accademia Silvio D’Amico.

Si presentava anche ai provini per il cinema: «Ma ogni volta mi dicevano che ero troppo “teatrale”. Quelle di formazione sono però esperienze di vita fondamentali. Mi hanno insegnato ad espormi come persona anche in personaggi che sono fuori dalle tue corde, ma raggiungibili, se accetti la sfida».

Passare la vita sulla breccia senza mai sfondare davvero: chissà che rapporto ha un attore come Romano con la parola ‘successo’, in questo mondo fatto di immagine, di apparenza, che è lo spettacolo italiano. “Il successo è una brutta bestia. Il paradosso è che a conquistarmi un barlume di popolarità è stato lo show tv di Paolo Bonolis, Avanti un altro, col personaggio di un professore tedesco pazzo, Otto Merkel, una gag. Che poi cos’è il successo, in realtà?

È il fatto che ti permettano di lavorare in modo da avere successo. A me non interessa poi tanto. Mi interessa potermi esprimere. Il mio vero successo, ad oggi, è quello di aver potuto fare questo mestiere e di riuscire a camparci, avendo anche passato momenti duri, con gli amici che ti fanno la spesa, le notti passate in macchina perché ti hanno sfrattato, un anno ospite itinerante di casa in casa. Però non ho mollato».  

La svolta? 

Bassifondi, col suo primo vero ruolo da protagonista, forse rappresenta una svolta e forse no. «Ringrazio infinitamente Trash Secco perché ha creduto in me. Gli avevano già proposto altri nomi, ma ha voluto me e per me si è battuto, mi ha imposto alla produzione. Ci eravamo conosciuti su un piccolo set di videoclip di rapper, è la fortuna di capitare al posto giusto nel momento giusto.

Nel nostro mestiere fa molto piacere anche quando ti fermano per fare una foto. Effetto della televisione, certo, e i più mi chiamano col nome di quel personaggio, un clown. Ma qualcuno, e sono sempre di più, mi conosce anche col mio vero nome».

Resta il fatto che per moltissimi attori il passaggio dal palcoscenico al cinema non è per niente facile, come se ci fosse una parete invisibile, una tacita resistenza ad aprire le frontiere tra questi due mondi. Dal cinema al teatro la strada è tutta in discesa, nel senso inverso è tutta in salita. «È stato vero fino a qualche anno fa. E non so neanche perché. Se pensi al nostro cinema degli anni Cinquanta e Sessanta, i protagonisti venivano tutti dal teatro (verissimo, e volentieri li ritrovavi anche nei cosiddetti “sandaloni”, i film epici in costume, ndr ).

Tra gli anni Settanta e Ottanta le cose sono cambiate drasticamente. Adesso fortunatamente grazie ai  giovani registi, soprattutto, è iniziata la controtendenza: apprezzano chi viene dal teatro. È chiaro che i mezzi sono diversi, ma quando un attore riesce a muoversi in quel contesto e a sentirsi a suo agio, anche a fianco di gente che magari non ha fatto nessuna scuola, è un percorso che arricchisce.

Come diceva il grande Eduardo, gli esami non finiscono mai. Alla fine, la vera questione è avere talento. Puoi avere tutte le scuole che vuoi, tutti i casting director con i loro incontri, ma se non hai quella fiamma, quell’input...».

Licenza di improvvisare

Ai grandi teatri istituzionali non ci è mai arrivato: «Forse un po’ forse mi sono mancati, ma ho avuto la fortuna comunque di interpretare tutti i personaggi-chiave della drammaturgia». Il suo Callisto, il barbone esuberante, spudorato e fraterno di Bassifondi era ancorato a una sceneggiatura di ferro, ma con larga licenza di improvvisazione.

«Al trucco arrivavo come Romano. Poi salivo in macchina e iniziava la lotta tra il Dottor Jeckyll e Mr Hyde. Arrivavo sul set ed ero Callisto. Mi è capitato di fermare un ciak (ma ne abbiamo girati pochissimi) solo perché un brusio mi faceva uscire da quella pelle. E ogni mattina prima di girare col regista puntualmente ci si confrontava. Roma, quella vera, mi ha aiutato. Ci sono molte scene di massa, ma quelle che vedi non sono comparse: abbiamo chiesto l’elemosina per davvero. La telecamera era così lontana che neanche capivi se c’era davvero. Una volta siamo riusciti a rimediare un euro e mezzo: eravamo felicissimi!».

Ma in sostanza, con tanto lavoro alle spalle, Bassifondi  è un punto di arrivo o un punto di partenza? «Bella domanda anche questa. Per me è un punto di partenza. Perché ci ho messo tanta esperienza, non solo professionale ma anche di vita, e finalmente ho cominciato a capire come funziona il meccanismo produttivo. E soprattutto vuol dire andare avanti, continuare a studiare e a metterti in gioco, reagire alla pigrizia di chiuderti in casa con la chitarra, pensare che hai davanti un cammino ancora lungo». 

Premi non se ne aspetta, ma il David di Donatello è nel suo libro dei sogni, «anche come riconoscimento per tanti anni di sacrificio e rinunce». C’è un sogno, però, più a portata di mano: «Essere riconosciuto come Romano Talevi, uno che ha nella vita ha scelto di fare l’attore». 

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