A Venezia c’è il supermercato più bello del mondo. Era un teatro. Il Teatro Italia. Al suo indirizzo web leggiamo: «Luogo simbolo nel cuore di Venezia, gioiello architettonico del primo Novecento, Teatro Italia è stato riqualificato e nasce oggi a nuova vita. Teatro Italia torna a essere un punto di riferimento per chi ama essere circondato dalla bellezza e dal respiro della storia, anche nella propria quotidianità. Una vita lunga più di un secolo, nella quale il prestigioso edificio è stato teatro, cinema, sede universitaria e oggi, grazie a un accurato lavoro di restauro, punto vendita tra i più scenografici al mondo. Dopo un periodo di abbandono, Teatro Italia viene restituito ai cittadini veneziani e alla sua vocazione originaria: quella di rappresentare un vero e proprio palcoscenico di emozioni. Teatro Italia alza il sipario su una nuova fase della sua storia: con l’eleganza e lo stile di sempre, proiettati nel futuro».

È instancabile, il capitale. Quando si tratta di appropriarsi di ciò che non gli appartiene, non si fa certo scrupoli. Ma che cosa, ormai, non gli appartiene?

Vittima sacrificale

L’“economia-mondo”, come la chiamava Fernand Braudel, divenuta capitalismo finanziario, sembra ormai essersi divorata tutto il divorabile. Niente le sfugge, meno che mai Venezia.

Dopo tutto, fu lo stesso Immanuel Wallerstein, brillante discepolo dello stesso Braudel, a suggerire che proprio nella Serenissima ebbero luogo i primi vagiti di quel “sistema-mondo” che avremmo poi, secoli dopo, chiamato capitalismo. Come dargli torto.

Da antica e gloriosa genitrice della modernità, Venezia è lentamente e inesorabilmente divenuta vittima sacrificale dell’economia contemporanea, che la sta trasformando in generosa vetrina merceologica. Venezia si è arresa a tutti i suoi nemici, si è offerta a braccia aperte alle lusinghe di appetiti economici che mai hanno avuto a cuore il suo destino, ma l’hanno sempre e soltanto considerata un gran bell’affare. Niente di più, niente di meno.

Un destino baro l’ha spinta verso la fine ingloriosa della quale noi veneziani siamo oggi spettatori cinici e testimoni indifferenti. Il denaro. Non c’è nient’altro che conti davvero, se non il denaro. Tutti lo agogniamo, tutti lo desideriamo al di sopra di qualsiasi altra cosa. Ma il denaro, come si dice, non è tutto. Ci sono altre ricchezze, quelle che non ci portiamo nella bara.

Una di queste è la storia di una città, Venezia, che sta morendo, sopraffatta da processi economici e sociali ormai globali, infinitamente potenti e totalmente incoscienti, per i quali il pesciolino lagunare è il più ghiotto dei bocconi.

Eccola oggi, Venezia, come un gigantesco Teatro Italia, trasformatasi in un ipermercato.

Il colpo finale

Le indagini che Domani ha dedicato al sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro – che siano benedette – dicono molto dello stato delle cose in cui versa la città, ma il problema vero non è lui, ma il clima culturale e politico che ha permesso e permette a personaggi privi di un profilo intellettuale all’altezza della città, di governarla.

Non sono nato a Venezia. Ci venni a vivere per studiare Lettere e Filosofia all’Università Ca’ Foscari, trent’anni or sono, e non me ne sono più andato. Venezia mi accolse, permeandomi della sua straordinaria bellezza, concedendomi il meraviglioso privilegio di perdermi nello stupore del suo labirinto di calli, campi e canali. Me ne innamorai perdutamente. Mi innamorai anche della schiettezza dei suoi abitanti, della vitalità di una comunità umana orgogliosa e volitiva.

In questi tre decenni ho visto Venezia trasformarsi in modo clamoroso, deformarsi in un non luogo, in un parco a tema, in un albergo diffuso. Tutto della sua identità storica è andato perdendosi.

Una carbonara con panna, un fast-food, una gelateria, un immenso bazar di souvenir irricevibili prodotti nell’altra parte del pianeta, una movida insulsa e “cagnarosa”, come si dice qui, uno spritz all’Aperol, una “cicchetteria”, questo è oggi, disgraziatamente, Venezia. 

Questo processo di trasformazione turistico-centrica ha avuto, con l’amministrazione di Brugnaro, un’accelerazione definitiva e forse irreversibile. La devastazione.

Solo turismo

Tutto, ma proprio tutto, in questa città è dedicato al turismo. Il 75 per cento delle attività economiche. I residenti se ne vanno e affittano i loro appartamenti ai turisti. Gli studenti sono costretti a trovare sistemazione in terraferma. Cercare un appartamento in centro storico, per una famiglia, è diventato uno sforzo inutile, destinato a infrangersi contro la gentrificazione disneyana imposta dalle piattaforme del web. Acquistarne uno poi… è semplicemente troppo oneroso.

Lo strapotere di una Airbnb, per fare l’esempio più ovvio, incide sullo sviluppo economico della città e sul suo tessuto sociale con una ferocia che non ha paragoni al mondo. Sì, certo, ce li ha, e non pochi, ma nel nostro caso siamo all’emblema, al paradigma post-moderno par excellence dell’invasione del turismo globalizzato.

Filippo Ciappi

Non voglio demonizzarlo, il turismo. È prezioso, porta soldi e lavoro. Ma l’eccesso è l’eccesso, c’è poco da fare. E porta con sé conseguenze gravi.

All’inizio del Novecento in Venezia isola vivevano circa 150mila residenti. Negli anni Cinquanta si arrivò a un picco di 175mila. Negli anni Settanta un calo improvviso (108mila). Nei Novanta il processo di spopolamento si fa sempre più importante (75mila), fino all’oggi, in cui i residenti sono più o meno 50mila. Il flusso turistico annuo è di una dozzina di milioni, da tutto il mondo. Una cosa da non credere.

Le attività artigianali, i “mestieri”, fatte salve una manciata di eccellenti eccezioni, non ci sono più: tanti saluti al Papier-Mâché, e che plastica sia, una volta per tutte.

Sembra che allo scempio delle grandi navi sia stata trovata una soluzione. E meno male, ché lo zolfo che ci facevano respirare era insopportabile. Ma il turismo mordi e fuggi dei croceristi è ben poca cosa (circa il 15 per cento) di quello complessivo.

Niente, assolutamente niente è stato fatto negli ultimi dieci anni per contenere la fiumana turistica in città. Anzi. Nuove mega-strutture di ricezione sono state costruite a Mestre, orribili come scatoloni (ma perché, mi chiedo, ancora si costruisce in questo modo in Italia?). E che rabbia mi fanno gli immancabili “tornelli”, di quando in quando esibiti a protezione della città. Non servono a nulla, bugiardi e fastidiosi, non sono che ipocrita propaganda.

Sommersi dall’acqua

Nel novembre del 2019 si verificò una mareggiata eccezionale, un’acqua alta seconda solo a quella devastante del 1966. Brugnaro s’infilò gli stivaloni da pesca e venne a dar bella mostra di sé in Piazza San Marco. Intervistato in loco da quelli di La7, disse di non sapere nulla del Mose. Ci scherzavamo al bar un po’ tutti, dicendoci… Ma Brugnaro… Di quale città crede d’essere sindaco? La risposta, scherzosa ma tristemente puntuale, era sempre la stessa: di Mestre, il suo bacino elettorale.

Luca Zaia aggiunse scherno allo scherno, chiedendosi pubblicamente come mai le paratie dell’ecomostro non si alzarono, quel maledetto 12 novembre, e anche questa la dice lunga sull’incoscienza, l’inconsapevolezza, l’ignoranza colpevole e connivente di un ceto politico del tutto insufficiente e inadeguato a preservare Venezia nella sua unicità e straordinarietà storica, artistica, culturale a tutto tondo, e di proteggerla da un destino beffardo e crudele, quello di morire sopraffatta dalle circostanze storiche, dal suo stesso presente. Al futuro, meglio non pensarci. Il presente, nient’altro che il presente, questo conta.

In quella drammatica occasione, la mareggiata del 2019, ho osservato compiaciuto tanti, erano tanti, giovani e giovanissimi veneziani, raccoltisi a due passi da dove vivo, presso il Centro sociale occupato “Morion” – inviso a Brugnaro come un problema di ordine pubblico – offrirsi in aiuto di privati e aziende, ovunque nelle aree più colpite dalla marea, per sgomberare magazzini, ripulire case, portare un po’ di conforto a chi era stato più duramente colpito; uno sforzo che, a guardarlo, ammirarlo, mi commossi.

Erano i ragazzi e le ragazze dei Fridays for Future. Dentro di me pensai, ecco: un po’ di speranza, nel ventre della catastrofe.

Vidi anche una pletora di turisti americani, tedeschi, francesi, spagnoli e italiani, sì, italiani, padovani e vicentini e veronesi (ne riconosco l’accento, e sono così spesso i peggiori, me lo si lasci confessare), divertiti, sorridenti, sghignazzanti, ballanti, urlanti, cantanti, farsi i “selfie” da pubblicare nei social, del tutto incuranti della tragedia che stava vivendo la città.

Di fronte a tanta stupidità, ho visto qualche veneziano, incredulo ma iracondo, mandarli a quel paese. E meno male.

Gli antagonisti

Quando Brugnaro vinse la sua prima elezione a sindaco, furono proprio questi ragazzi e ragazze a finire nel mirino della sua propaganda. Se vivevi a Venezia, o Mestre o Marghera, era impossibile non incappare nei suoi spot in YouTube. Qualsiasi video cercassi, appariva lui, schiumante rabbia, dileggiare e accusare di ogni male e nefandezza l’attivismo politico degli “antagonisti”, quelli del Centro sociale “Rivolta” o del Morion, appunto: a questi anarchici tossicomani non si doveva abbandonare la città.

Sembrava che il vero e gravoso problema di Venezia fosse costituito dai giovani più radicalmente politicizzati del territorio, ovvero proprio coloro che più hanno a cuore il destino di Venezia, dimostrandolo ogni giorno, e in particolare in quelli più drammatici. Il profilo reazionario del personaggio tristemente troneggiante sulla figura del padre, Ferruccio, che fu operaio, poeta e leader sindacale della Montefibre di Marghera, fu chiaro fin da subito.

L’eclissi della memoria

Nel suo accorato saggio Se Venezia muore, edito da Einaudi nel 2014, Salvatore Settis, con l’eleganza narrativa e il talento analitico che da sempre lo contraddistinguono, scriveva che «in tre modi muoiono le città: quando le distrugge un nemico spietato /…/, quando un popolo straniero vi si insedia con la forza, scacciando gli autoctoni /…/, o, infine, quando gli abitanti perdono la memoria di sé, e senza nemmeno accorgersene diventano stranieri a sé stessi».

Spero non me ne vorrà il professor Settis, che imputa alla perdita della memoria l’inarrestabile declino di Venezia («l’eclissi della memoria incombe su noi tutti, minaccia la convivenza civile, insidia il futuro, toglie respiro al presente. /…/ Se mai Venezia dovesse morire, non sarà per la crudeltà di un nemico né per l’irruzione di un conquistatore. Sarà soprattutto per oblio di sé stessa»). Io temo che tutti e tre i modi da lui citati siano pertinenti quando parliamo del declino di Venezia.

Le piattaforme del web sono il nemico spietato, che non guarda in faccia a nessuno e a cui interessano solo ed esclusivamente gli insopportabili profitti esentasse che ne ricava ogni giorno. Il turismo di massa è il popolo straniero che scaccia gli autoctoni. Infine, certo, ed è quanto di più doloroso, l’oblio di sé: la falsa coscienza, l’ideologia del denaro, l’opportunismo, che corrompono fin dentro al cuore un intero consorzio umano.

Purtroppo, è un fatto, tutti vogliamo una cosa su tutte, la stabilità e la sicurezza economica, l’arricchimento quindi, per levarci di torno l’ansia di arrivare alla fine del mese.

La legge del più forte

Luigi Brugnaro è forse il sindaco di Venezia più inadeguato che potessimo avere in questo frangente storico. Dentro ai suoi conflitti di interesse non c’è soltanto una postura esistenziale fondata sul profitto economico.

Si vocifera dei suoi toni bruschi e irrispettosi, della sua postura aziendalista, quella del “qua il paron son mi”, della sua pervicace antipatia nei confronti di coloro che non sono d’accordo con lui.

Vogliamo ricordare come il sindaco di Venezia, durante un dibattito pubblico, invitò uno studente a risolvere la discussione «fuori»… Fuori come? A suon di botte? Era il novembre del 2016. Ma come può, santo cielo, un sindaco esprimersi così? Non fu forse, quella sua sparata, foriera di una personalità, di un carattere, di una visione della società basata sulla legge del più forte, sul rifiuto del confronto, dell’interlocuzione democratica, della dialettica sociale. Io penso di sì. Così, siamo passati da un sindaco filosofo a un sindaco boxer de rue

Bene comune

Ce n’è a sufficienza per vergognarci tutti, anche coloro che non l’hanno votato e non lo voterebbero mai. Personalmente, da cittadino residente, mi sento mortificato. Quasi quasi mi viene voglia di chiedere scusa a voi tutte e tutti, che mi state leggendo. Grazie della pazienza.

È un segno dei tempi, del declino non soltanto veneziano, ma del paese nella sua interezza. Perché Venezia, e Settis sarebbe d’accordo con me, è un “bene comune”, un bene del paese intero, dell’Europa, del mondo. E mai e poi mai bene privato fra le mani di uomini che, approfittandosi degli strati meno acculturati della società e della loro credulità, vogliano farne una questione di arricchimento personale, consegnando Venezia a un futuro comatoso di campi e calli travolti da tavolini apparecchiati per l’esclusiva gioia di scostumati predatori di spaghetti alle vongole.

Vorrei chiedervi, con lo sguardo rivolto ai masegni delle calli, per vergogna e intimo risentimento, di non dimenticare Venezia, e di non pensarla solo come occasione spensierata di un fine settimana vacanziero. Vorrei chiedervi di pensarla per quello che purtroppo è diventata. Una città storica in pericolo di vita.

La sua sopravvivenza dipende da tutti noi. Quando verrete a visitarla, spegnete i vostri smartphone. Lasciatevi perdere nei suoi vicoli. Perché Venezia detesta la fretta, e ama il naufragio.

Guardate verso l’alto dei suoi palazzi, osservatene la straordinaria ingegneria. Vi accorgerete che così tanti sono letteralmente appoggiati l’uno sull’altro. Che cos’è Venezia se non un esempio irripetibile dell’ingegno umano, della capacità dell’umanità di edificare opere senza tempo, per poter sempre e comunque immaginare il futuro.

Non fermatevi a cibarvi nel primo ristorante che vi capita. Chiedete ai residenti, non a Google, vi consiglieranno per il meglio. Accarezzatene i muri, le pietre, le innumerevoli sculture, e smettetela di scattarvi fotografie. Tornatevene a casa con un sentimento, non con un’esibizione della vostra visita.

E abbiatene cura. Siate pazienti del nervosismo dei suoi abitanti, perché non ce la fanno più a sopportare l’insopportabile. Se venite in settembre o in ottobre, ammirate la luce del sole che si infrange nella sua architettura, respiratene l’aria odor di mare. E se siete ricchi, venite a viverci. Sottrarrete alla rendita e agli speculatori un piccolo pezzo di città, una città che vi accoglierà con disincanto, che non vi giudica, perché non vuole giudicarvi. Per quanto piccolina (se la vedi dall’aereo fa una certa impressione la sua minutezza), Venezia è cosmopolita.

Bussare alla porta

Qualche anno fa suonarono alla mia porta, alle sei del mattino, per minuti e minuti. Io non sono un mattiniero, neanche un po’. Sono uno che si alza a mezzogiorno, e a quell’ora dormivo profondamente. Ma, niente… Il campanello di casa continuava a suonare, sempre più frequente. Mi spaventai un po’, chiedendomi cosa stesse accadendo.

Finalmente sveglio, corsi alla porta. La aprii. Di fronte a me due corpulente ragazze americane in tenuta da spiaggia. Tenevano entrambe i loro iPhone ultima generazione stretti fra le mani. Compresi al volo che stavano sbagliando porta e, in mutande per il caldo agostano, dissi loro «I am so sorry, but this is a private flat, not a b&b». Le due si guardarono fra loro, poi tornarono a rivolgere lo sguardo verso i rispettivi dispositivi, ingrandendo le immagini.

Le stetti a osservare per un paio di minuti, pensando che magari avrei potuto aiutarle a trovare l’indirizzo giusto, ma ero praticamente nudo, e non avevo nessuna voglia di vestirmi, uscire, e dare loro una mano, volevo solo tornare a dormire. E poi, devo ammettere, mi erano istintivamente antipatiche.

Una di esse alzò lo sguardo e, guardandomi maleducatamente negli occhi (io, come i russi, non guardo negli occhi gli estranei, mi sembra sgarbato), mi chiese… «are you sure?».

Non le risposi. Chiusi la porta della mia casa, quella in cui viviamo io e la mia amata compagna, e me ne tornai a nanna con lei. Mi chiese… Chi era? Risposi… Nessuno.

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