Il dibattito tra letteratura “alta” e “bassa” è annoso, e anche un po’ noioso. La letteratura di intrattenimento ha numericamente superato a destra l’intimismo da diversi anni e, sulla scia americana che aveva già chiassosamente abbandonato la distinzione tra narrativa letteraria e di genere, ha equiparato le voci trasformando tutto in materiale adattabile a più mezzi possibili: dal romanzo al film, alla serie, al fumetto. Si può essere d’accordo o meno, apprezzarlo o non apprezzarlo, ma l’abilità di tenere incollati alla pagina un numero più alto possibile di lettori divertiti, conta più degli inconsci cassetti privati che si spalancano nel manipolo di pochi ma buoni cercatori di rivelazioni letterarie.

C’è uno scrittore – inteso come uno che scrive, non per forza e solamente libri, racconti e romanzi, ma che applica la sua scrittura a una quantità di media disparati – che più di altri in Italia incontra lo standard del gotha americano in fatto di letteratura di intrattenimento. È un fenomeno interessante. Naviga un sottile rivolo di corrente calma e tutta sua tra le acque basse e placide del mainstream sfacciato e quelle burrascose, accattivanti ma di certo oscure, della letteratura radicale. Veicola messaggi, ma nessuno sembra coglierli. Intrattiene, ma in molti si affrettano a dichiarare la loro contrarietà ai suoi prodotti. È contemporaneamente amato da un’indubbia massa critica e odiato da una minoranza rumorosa.

Fabio Volo è uno strano tipo di autore e il dibattito sulla sua legittimità in quanto tale è forse il più avvincente esempio di quanto si possa intrattenere con poco. Ma lo è, un autore. Uno curioso, che pesca a piene mani dal suo intorno, che veicola la sua creatività attraverso ciò che lo diverte e che ha, ormai, il privilegio di poter scegliere il mezzo che ritiene più adatto.

Lo ammetto, ho fatto parte della minoranza rumorosa, ma poi ho provato a guardarla da fuori e ho visto uno scrittore isolato come un toro nell’arena, mentre il pubblico tifava per lui e i banderilleros gli giravano attorno famelici, e mi è sembrata un’immagine d’altri tempi, romantica ma stantia, come chi scriva un racconto cercando di imitare la voce di Hemingway nel 2023 perché non riesce a liberarsi del mito, così ho perso il fuoco del problema.

Qual è il problema?

Quale in particolare?

Quello con la tua scrittura…

Non ho problemi con la mia scrittura, anzi mi viene piuttosto facile.

Si vede. E ti diverte anche?

Certo. Non c’è niente che io faccia che non mi diverta.

Anche questo è abbastanza evidente. Sembra che tu abbia un milione di interessi alla volta, come ti districhi tra tutti questi stimoli?

In sostanza inseguo quello che mi piace. Sono curioso di natura e soprattutto non ho mai formalmente “studiato”. Non sono andato a scuola. Appena ho finito le medie mi sono messo a lavorare, per me la scuola è sempre stato una sorta di ostacolo al lavoro. Poi nel mio panificio un giorno è venuto Silvano Agosti…

Il regista?

Sì, regista, scrittore, tutto quanto. E lui mi ha regalato un suo libro.

Quale?

La ragion pura.

Lo hai letto subito?

Io in realtà gli risposi che per me regalarmi un libro era come darmi una coltellata nella schiena. Non li sopportavo, non sopportavo l’idea di leggere perché la riconducevo allo studio, alla scuola, a quella che per me allora era una perdita di tempo.

Era anche una questione familiare?

Non direttamente. Nessuno mi ha mai impedito di studiare per lavorare. Ma mio padre aveva sempre a che fare con carte, documenti, avvocati, notai, e a me sembrava un mondo oscuro. Il mondo intellettuale dei cattivi. Però poi quel libro l’ho letto…

È stata una fatica?

È stata una fatica cominciare, ma poi è stato liberatorio perché a quello ne sono seguiti altri e ho recuperato una specie di mancanza che avvertivo nei confronti dei miei amici che in quel periodo frequentavano l’università e nei confronti dei quali mi sentivo in difetto. Insomma, quando ho cominciato poi non ho più smesso, ho cominciato a leggere qualsiasi cosa.

Avevi fatto pace con lo studio?

In un certo senso. Anche adesso leggo sempre con la matita in mano: sottolineo, prendo appunto. Cominciai a riempire un quadernone di riflessioni. Quindi sì, studiavo, ma senza accorgermene.

In che letteratura pescavi, in particolare?

Non avendo veri punti di partenza, non avevo nemmeno punti di arrivo. Andavo nelle direzioni in cui mi portava la mia curiosità. Poi, essendo cresciuto negli anni Ottanta, ero naturalmente orientato verso l’America e credo che la prima spinta creativa me l’abbia data Lamento di Portnoy.

Non mi stupisce… c’è un libro che ti ha segnato particolarmente allora e che rileggi oggi?

Ce ne sono diversi, ma su tutti direi Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline.

Impegnativo, anche dal punto di vista ideologico…

Ne sono cosciente ora, ma non lo ero allora. Quando l’ho letto per me era solamente bello; esteticamente appagante.

Immagino avessi attorno anche molti stimoli televisivi…

Certamente. Le serie TV, le sitcom in particolare sono state importanti tanto quanto la letteratura per questa mia formazione apocrifa ed extra-scolastica.

Quindi tu leggevi, guardavi, ascoltavi e poi volevi arrivare a fare ciò di cui ti nutrivi intellettualmente?

Sì, esatto. Non so se la curiosità è una specie di attitudine e se si possa aumentare esercitandola, ma è qualcosa che mi sono sempre sentito addosso. La creatività è sempre stata una specie di massa dalla quale plasmare il prodotto migliore per il momento e per l’urgenza che avvertivo. È come guardare la stessa città attraversandola con mezzi diversi.

Ed è anche un buon modo per colmare la distanza di cui parlavamo prima…

«Sostituire l’obbligo di studiare con il diritto a sapere», mi aveva detto Agosti. E per me è ancora adesso questa l’essenza fondamentale della mia ricerca.

Questo ti offre una prateria di spunti, non sempre incontaminati. Come li sfrutti?

Cerco di capire cosa mi parla di più e provo a riprodurlo, a rimasticarlo, a dargli una forma che mi sia congeniale. Prendi le serie, per esempio, quando ho fatto Untraditional volevo ritagliare su di me qualcosa che avevo visto funzionare altrove.

Ha funzionato?

Non troppo, però sono stato contento di averci provato.

Cosa ti aveva ispirato? Avevi visto Curb Your Enthusiasm?

Esatto, Larry David per me è il genio comico assoluto. E Seinfeld, che è la mia serie preferita di tutti i tempi. Mi piaceva l’idea di costruire una commedia sulla realtà, anche intima, del mio personaggio. Cioè di me stesso. Che poi è qualcosa che non abbandono mai veramente, lo scrivere di me.

Questo è importante. Quindi eri e sei consapevole di quello che fai quando scrivi di te?

Assolutamente. In quel caso l’ho fatto proprio con tutta la volontà di essere il più realistico possibile. E, al di là della resa, fu una disfatta critica perché non si concepiva il fatto che potessi mettere la mia vita in scena. Sembrava qualcosa di arrogante. Sembrava che esaltassi la mia fama.

Quando invece è proprio perché sei famoso che l’esperimento è interessante…

Direi di sì. Il fatto che in Curb Larry David sia il personaggio di sé stesso e si metta al centro della scena, si rapporti con situazioni nelle quali è facile immaginare lo stesso David, e con personaggi con i quali ha a che fare nella vita reale, rende la serie ancora più avvincente.

Forse ha a che vedere con la presunta caratura culturale del prodotto?

Questa è una cosa che rilevo molto soprattutto in Italia: la fruizione di un determinato prodotto determina la persona. Ma per esempio in America è un problema molto meno sentito, e la letteratura, il cinema, la televisione di intrattenimento sono perfettamente allineate alla cosiddetta fruizione “alta”.

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Si ha la tendenza a confondere l’intellettualismo con la cultura. Tu ti senti uno scrittore meno letterario di altri?

Non me ne preoccupo. Non so dire esattamente cosa definisca uno scrittore letterario e dove finisca invece la letteratura di intrattenimento. Io certamente cerco di intrattenere, da una parte, e di esprimermi al meglio dall’altra. Se questo fa di me uno scrittore di intrattenimento, ben venga. Non mi candideranno mai al premio Strega.

E perché no?

Ti sembrerebbe normale?

Nemmeno anormale…

Ma devo dire che a me non interesserebbe nemmeno, è quasi come stare ai margini di un fenomeno, fuori dai portoni di una chiesa. Forse dovrei cambiare qualcosa in quello che faccio o dovrebbe cambiare qualcosa in chi mi legge per poter entrare, ma sto benissimo andando per la mia strada.

Alla fine, hanno sempre ragione i lettori. Finché ti leggono sei dalla parte giusta?

Finché mi leggono, sto facendo qualcosa di buono. È come per un comico che si trova di fronte a un pubblico che ha smesso di ridere. È probabile che sia lui che sta sbagliando qualcosa, più che il pubblico che abbia smesso di capirlo.

Lo diceva anche Woody Allen

E Alberto Sordi. All’inizio non riusciva a lavorare, gli chiudevano le porte in faccia perché era considerato troppo “popolare”, ma poi, visto che il pubblico, cioè il popolo, ne chiedeva sempre di più, i produttori hanno dovuto in qualche modo accettarlo. E ha fatto la sua fortuna.

E degli stessi produttori…

Che tutto un tratto si sono riscoperti i suoi più grandi estimatori.

È sempre una questione di percezione o esistono dei valori universali mediati dalla letteratura?

Penso che sia una questione di come determinati temi parlino ai lettori. Io posso essere mosso dalla letteratura alta per il tema che veicola o dalla letteratura di intrattenimento, così come dal cinema di intrattenimento, dalla televisione, dalla musica, per quello che in quel momento comunica a me. Non credo esista un messaggio universale che appartenga all’uno o all’altro modo di veicolarlo.

Alcuni scrittori usano i propri personaggi per confessarsi, o per esprimersi dietro lo pseudonimo… Hai mai avvertito la tentazione?

Credo sia impossibile non farlo, a certi livelli. La prima volta che ho pensato di scrivere un libro avevo il mio quaderno di appunti. Era pieno di tutto quello che avevo letto, ascoltato, seguito e pensato fino a quel momento; dunque, era per forza una parte di me che stavo mettendo sulla pagina. Poi, pur in acque più travagliate e incerte, ho sempre cercato di farlo, di partire da me. Anche solo ispirandomi a quello che mi piace sto già facendo un esercizio di autobiografismo.

Paolo Della Bella/LaPresse

C’è chi si è messo nei guai così… Non senti l’impulso di nasconderti, di escludere qualcosa?

Sì, certo. Cerco sempre di calibrare molto bene quello che uso dalla realtà e quello che invece invento, anche perché con la presunzione che tutto sia realtà rischio di fare l’errore inverso. Di inventare qualcosa che poi venga preso per vero. All’uscita del primo romanzo mia mamma si è risentita…

Come la mamma di Philip Roth, per restare in tema Portnoy…

Esatto! C’è poi un libro che si chiama Il tempo che vorrei che parla del rapporto con il padre.

Mi sembra che sia stato fondamentale per te?

Indubbiamente è stata la figura che più mi ha influenzato, in tutti i sensi. Soprattutto dal punto di vista del conflitto generazionale. E quando è uscito Il tempo che vorrei lui mi chiamato e ha sentito il bisogno di chiedermi “scusa”. Io ho cercato di dissimulare, di minimizzare in un certo senso, gli ho detto che era un romanzo, che era una storia inventata. Ma lui ha insistito: «Io so quello che hai inventato», mi ha detto. «E so quello che c’è di vero, quindi scusa».

È cambiato il vostro rapporto?

Totalmente e radicalmente.

Meglio di una seduta di analisi…

In un certo senso. Scrivo per non andare dall’analista, anche se poi ci vado lo stesso.

Magari ti aiuta su altri fronti…

C’è tutto un mondo fuori dal libro e dalla produzione creativa che ha bisogno di essere razionalizzato da uno sguardo oggettivo.

La scrittura autobiografica, specie se confusa con l’analisi, può diventare autoassolutoria. Ti senti più leggero dopo aver scritto?

Sì, ma non perché mi sono assolto. Ho sempre messo pochissimi filtri su di me, sia nei romanzi che in radio. Sono protettivo nei confronti delle persone che ho attorno ma non ho mai avuto paura di far trapelare niente di me stesso, né dal punto di vista emotivo, né comportamentale.

Dipende dall’educazione che hai ricevuto?

Sì. Sono cresciuto in un ambiente familiare in cui ero libero di esprimermi come volevo e non c’è mai stato un momento o una condizione nella quale non mi sono sentito amato. Questo mi ha infuso un grande senso di libertà personale, disinibizione.

Affinata dal mestiere?

Certo, col tempo ho imparato a calibrare molto bene quello che mi conveniva esprimere e quello che mi conveniva tenermi per me.

Come prendi le critiche?

Di base sono un insicuro, quindi sotto sotto non le prendo bene. Ma ho imparato a tenere la barra a dritta perché mi sembrava di avere segnato un percorso ben definito con quello che avevo, che sentivo mio, e non mi andava di provare a inseguire strade che non conoscevo per il favore della critica. Ora ne sono felice.

Ti senti escluso dall’intellighenzia?

Non più. Anzi, non mi sono mai veramente sentito escluso. Prima perché non sapevo che esistesse un’intellighenzia, quindi non me ne preoccupavo: facevo quello che mi piaceva e tanto bastava ad appagarmi. Poi perché ho capito, o ho cominciato a sospettare, che qualsiasi cosa avessi fatto non avrebbe cambiato la mia posizione. In mezzo ammetto di essermi sentito frustrato, ma è stata una parentesi relativamente breve della mia carriera.

Eppure, ti rivolgi alle masse: hai mai pensato di essere, in fondo, un’intellettuale?

Non saprei che cosa vuol dire. Sono uno che scrive storie, non ho la pretesa di metterci una morale a priori o che questa mia attività mi investa di una particolare funzione. La mia scrittura credo che venga dalla solitudine: da bambino giocavo da solo dietro al divano e ho cominciato a scrivere, a esprimermi per qualcuno che leggesse o ascoltasse, soprattutto per andare incontro a questa solitudine.

Sei introverso?

Non necessariamente. Amo parlare con le persone e ascoltare quello che hanno da raccontarmi, ma sento anche la necessità di verbalizzare quello che penso per me stesso. Sapere che qualcun altro pensi le stesse cose e viva le stesse sensazioni è in un certo modo rassicurante.

Questo è un esercizio capzioso: c’è un tuo libro che consiglieresti a chi pensi che non ti leggerebbe mai?

Tutti, in ordine cronologico, così da non sprecarne e da avere scelta.

Ti sei mai sentito vicino all’intellettualismo “ufficiale”?

Non lo so! L’ho ammirato, di sicuro. Sono cresciuto leggendo autori che sono universalmente riconosciuti come pietre miliari della letteratura, quindi non lo disprezzo. Sono stato a casa di Harold Bloom

Non me lo aspettavo…

Sì, sono andato a intervistarlo. E lui era uno che fissava le radici della letteratura su Cervantes e Shakespeare, quindi su basi molto classiche, in qualche modo distanti dal contemporaneo ma forse per questo più vicine alle mie.

Di cosa avete parlato?

Di libri e di critica letteraria soprattutto. Lui non sapeva chi fossi e non aveva pregiudizi, ma ci siamo trovati d’accordo sulle fonti di ispirazione. Poi ho lasciato un mio libro nella sua libreria, ma non so se se ne sia mai accorto.

Probabilmente non leggeva in italiano…

Forse sì, leggeva Dante.  

Hai conosciuto anche Noam Chomsky?

Sì, quella è stata una cosa strana, perché non accoglieva molte interviste, ma la sua segretaria scoprì che ero la voce italiana di Po in Kung Fu Panda ed essendo una fan mi ha fatto passare.

È un modo come un altro di arrivare nel posto giusto, ti è sembrato sconveniente?

Assolutamente no. È sempre lo stesso discorso sulla cultura alta e l’intrattenimento, non penso che l’una sia intrinsecamente migliore dell’altra, come non penso che ci sia nulla di imbarazzante a mescolarle o a utilizzarle in maniera trasversale.

Sai chi era George Plimpton?

Certo, fondatore della Paris Review.

Faceva sempre una domanda agli scrittori che intervistava, chiedeva: «Qual è il tuo contributo?»

Una cosa che cerco di fare sempre, quale che sia il prodotto del mio ragionamento, è di fare emergere il lato positivo di tutte le situazioni. Non mi “preoccupo” ma mi “occupo”. Non voglio democratizzare il mondo o fare per forza la parte del buonista, ma quello provo sempre attivamente a trovare il lato positivo. Che non significa per forza addolcire, ma spesso è uno sforzo a cercare una soluzione per migliorare le cose.

Ti riesce?

Non sempre, e quando non riesce ne traggo una conclusione che può essere utile a qualcun altro che voglia provare dopo di me.

Ti senti privilegiato?

Sono uno che ha potuto fare quello che voleva, mi sento fortunato. Forse ho anche dovuto giocare un po’ con le statistiche avverse, ma alla fine sono stato abbastanza determinato per arrivare a un punto in cui mi sento soddisfatto. Se è un privilegio, non so.

Forse lo è, ma non è un peccato…

Meno male.

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