Mahmood è il bambino solitario e immaginoso che rende il nido famigliare in fiamme una stella cadente. L’orfano perseguitato dal fantasma del padre vivo e vegeto che, dopo l’indifferenza decennale, torna a farsi sentire solo per chiedergli di cambiare cognome. Il ragazzino che non conosce l’arabo, e ha visto due volte l’Egitto, a cui a scuola dicono di tornarsene al suo paese. Ma oggi è soprattutto l’artista pop più grande che abbiamo.

Quello che, dall’esordio con Gioventù bruciata in poi, ha cambiato il nostro modo di concepire la forma canzone, sovvertendo regole e provincialismi, e tracciando passaggi e libere alleanze tra rap e pop, musica black, araba e scena urban. Con lui, da lui, nulla è più stato come prima: gli sono bastati un paio di singoli, e ci ha lanciati nel futuro, o in quel presente di suoni e lingue da cui ancora eravamo lontani. Ora sembriamo essercene accorti sul serio, speriamo una volta per tutte.

Impossibile non guardarlo

Tuta Gold pare aver segnato uno spartiacque emotivo oltre che numerico. Durante la settimana sanremese, impossibile non averlo notato, è successo qualcosa: esibizione dopo esibizione il pubblico voleva stare con Alessandro. Ascoltarlo, vederlo, rimpallarselo di bacheca in bacheca, di chat in chat, sotto forma di feticcio o meme. Riprodurre la coreografia, il look, immaginarsi – uomini o donne che si fosse – dentro quegli abiti liberi da classificazioni di genere, tutti drappeggi e pelle esposta.

Ha irretito tutti, come e più delle passate partecipazioni, senza bisogno del clamore dell’esordio, del tema dolente o del sodalizio col teen idol da far conoscere ai boomer. Complice forse, come racconta lui stesso, il lavoro che ha fatto su di sé (e con la terapia), che sembra averlo reso più disinvolto e rilassato, anche giù dal palco.

Era difficile staccargli gli occhi di dosso, per l’insieme di racconto e ricerca, magnificenza sensuale, presenza scenica: un miscuglio lampante, e non solo esteriore, dato che la storia di questo artista, incandescente dietro lo scudo protettivo del virtuosismo tecnico, è sempre stata quella di un’introversione che cerca il modo per uscire allo scoperto, di una sensibilità intensa che prende ostinatamente le misure per andare nel mondo.

L’infanzia 

Come per Ghali, è difficile addentrarsi nell’universo di Mahmood senza tornare all’infanzia, trascorsa con la madre, l’irresistibile Anna Frau originaria di Orosei, Sardegna, e trasferitasi nella periferia milanese del Gratosoglio (più precisamente Basmetto), lungo le rive del Naviglio Pavese, anche lei ormai amatissima dai fan del figlio. Un’infanzia scissa, tagliata in due.

«Siamo cresciuti insieme», dice mamma Anna nel documentario Prime Video di fine 2022. Insieme e da soli, dopo l’abbandono del padre, l’uomo di origine egiziane, probabilmente poligamo, a cui è dedicata Soldi, e che nel nuovo album, Nei letti degli altri, torna a più riprese sotto forma di eredità emotiva ineludibile («Perdo tempo a chiedermi / se piaccio a chi non ho mai visto perché / forse è che da quando ho fatto cinque anni / mi hai lasciato un triste ricordo di te»).

Forse per effetto dell’educazione sardo-materna al riserbo, Mahmood non ama parlare dei momenti difficili della sua vita: un’anomalia in questo nostro tempo di polemiche e sensazionalismo. Per lui tutto si gioca e si deve giocare sul piano dell’arte. C’è una forma di devozione inflessibile in questo contegno quasi anacronistico: nulla può rischiare di contaminare il campo, spostare il fuoco. La posta in gioco, per lui, è troppo alta. Se volete sapere di me, sembra dirci, cercatemi nei miei testi: lì c’è già tutto.

Corpo a corpo con sé 

ANSA

E infatti il terzo disco di Mahmood è un’apnea serrata nei ricordi e nelle relazioni. Un corpo a corpo con sé stessi, coi genitori e gli amori malconci in giro per l’Europa. Dentro e contro il tempo, per trovare le parole, abitare il rischio della profezia interiorizzata, e addomesticare – in ricordo dell’infedeltà primaria subita – le pulsioni proprie e altrui.

Nei letti degli altri è un viaggio nelle ferite originarie, che producono altre, successive ferite, una ricognizione nelle conseguenze del dolore in cui siamo stati allevati. Eppure c’è ben poco di cupo in questo disco, perché Mahmood si circonda di esseri fantastici, oggetti fatati, pozioni magico-lisergiche e formule – se non di guarigione – almeno di metamorfosi.

Come accade coi Pokemon, con Bakugo di My Hero Academia e tutti gli altri anime e manga nei quali continua a rifugiarsi anche ora, passati i trent’anni. Nonché coi simboli della metà mancante del sé: le piramidi e Nefertiti, il deserto e le favole del Corano.

Si circonda del suo immaginario, dei compagni di gioco di allora, e di molta vitalità, ritmo e ironia, perché provare a diventare grandi significa anche riuscire a ballare insieme al dolore, o «twerkare mentre piangi», come ha sintetizzato bene parlando del brano di Sanremo.

Quando il bambino tradito e messo da parte cresce, a volte capisce di poter giocare col tempo dell’abbandono, di poter trovare nuovi nomi e immagini per i fantasmi che fanno paura: non per rimuovere o minimizzare, ma per rivisitare, coi suoi strumenti, col suo linguaggio, ora che può, ciò che a lungo è rimasto incontrollabile, angoscioso o privo di senso.

Quella raccontata da Mahmood è per certi versi un’infanzia interrotta, che riesce ad andare avanti solo a suon di effetti speciali, meraviglia dopo meraviglia, con il rigore straordinario di chi non vuole più essere dimenticato. La sua solitudine si è fatta fluorescente, e questo è accaduto proprio incontrando la sua vocazione, cioè la scrittura musicale.

Anche in questo Mahmood è una figura del confine: cresciuto tra mondi diversi, Milano e l’Egitto, la Sardegna e oggi Berlino, Lisbona, Parigi e Miami, ibrida la forma canzone con la sua naturale aspirazione all’altrove, al più grande. La sua scrittura è insieme semplice e stratificata, trascrizione impressionistica del dato emotivo, che salda insieme stile e spudoratezza, i trend con la profondità.

Il suo uso dell’italiano in musica è sapiente e mai scontato, perché il bisogno espressivo e quello melodico in lui sembrano coincidere. Pensare per Mahmood è cantare, osservarsi è mettere in metrica. I melismi r&b si uniscono alle scale arabe e alle ritmiche di varie provenienze e tradizioni: piegando la lingua in un modo che è solo suo, l’italiano diventa pop quanto l’inglese e lo rende l’artista più attuale e destinato a farsi amare all’estero.

Una tensione struggente

Di fronte alla ferita, subita quando poco o nulla si può capire, le strade sono due: la contrazione, il farsi piccoli, o l’espansione eclatante del desiderio. È la storia triste e memorabile di tante icone pop, da Marilyn Monroe a Raffaella Carrà: dall’innaturalità del rifiuto genitoriale può discendere una smodata, innaturale, capacità di desiderare ed essere desiderati.

Come confessa nella chiusura di uno dei pezzi più belli, Stella cadente: «Se ti dicessi da quanto non vedo una stella cadere / il primo desiderio non lo faccio mai per me / ma dal secondo, chiedo sempre cose irrealizzabili».

A essere dimenticati da piccoli può succedere che si cresca di più, perché manca la mano che ti dice: è abbastanza, va bene così.

Manca il limite dell’amore, il tocco con cui incontri l’altro. Dunque ti espandi ancora, e ancora, fino, talvolta, a diventare un gigante in gilet nero o tuta dorata. Se si è artisti, si tratta spesso di un doppio nodo che alimenta il talento, anche se, internamente, non è detto curi o plachi granché. Ed è proprio questa tensione, implicita e struggente, a rendere magnetica ogni cosa che Mahmood fa.

«Dopo un grande dolore, arriva un sentimento formale», scriveva Emily Dickinson aprendo una delle sue poesie più note, e pensando a questo ragazzo di Milano sud, cresciuto salendo e scendendo dal tram 3 di viale Missaglia, viene da aggiungere che, tanto più si sceglie di ricorrere solo a quel sentimento formale, per accedere al proprio dolore e condividerlo, quanto più l’atto creativo rischia di farsi ardente, e indimenticabile.

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