Deportato a soli 18 anni, gli diedero il numero 69610. È sopravvissuto grazie alla sua resistenza silenziosa e all’identità che ha ritrovato nel lavoro, oltre che nell’affetto di suo padre, arrestato con lui. Una volta tornato, cominciò a parlare. Nelle scuole, nei viaggi della memoria, negli incontri pubblici. Ripeteva sempre: «Non si può dimenticare. Dimenticare sarebbe una colpa»
Ci sono uomini che raccontano la storia e ce ne sono altri che la incarnano, la portano sulla pelle, nella voce e nella fame mai finita. Mario Candotto era uno di questi. È morto il 30 luglio 2025, a 99 anni, nella sua casa di Ronchi dei Legionari. Il giorno prima aveva ancora parlato con un gruppo di studenti. Di solito diceva: «Quello che vi racconto è la pura verità. Ma se non l’avessi vissuta, non ci crederei» .
Candotto non è stato solo un partigiano, un deportato, un testimone. È stato un uomo allegro. Lo ha ricordato così anche Gad Lerner, che raccolse la sua voce per Noi, partigiani. Una definizione che, accostata a Dachau, suona come un ossimoro. E invece è tutto lì, il cuore del suo messaggio: si può sopravvivere, e si può farlo anche senza cedere all’odio.
Nato il 2 giugno 1926 a Porpetto, nella bassa friulana, Mario era cresciuto in una famiglia semplice, di forte spirito laico. Il padre era sacrestano, ma fu espulso dalla comunità dopo che uno dei figli rifiutò il seminario. A quattordici anni Mario lavorava a Monfalcone nei cantieri navali, un luogo che lui stesso definì «fucina di antifascismo». Attorno, le tensioni della guerra si facevano sentire nei corpi e nelle fabbriche: cibo razionato, ordini gridati, camicie nere dappertutto.
Quando l’8 settembre 1943 cadde il velo, i suoi fratelli Massimo e Renzo salirono in montagna. Mario, appena diciassettenne, fece quello che poteva: diventò staffetta della brigata Bruno Montina. Portava messaggi, aiutava i combattenti, si muoveva tra le linee. Era già nel mirino.
La deportazione
Il 24 maggio 1944, la famiglia Candotto venne arrestata in blocco dopo una delazione. Un rastrellamento portò via 70 persone da Ronchi dei Legionari. I Candotto furono divisi: Mario e il padre Domenico finirono a Dachau, la madre e le sorelle Ida e Fede ad Auschwitz. I fratelli maggiori erano già morti in combattimento. A diciott'anni, Mario restava solo contro l’orrore.
Arrivò a Dachau il 2 giugno, nel giorno del suo compleanno. Gli diedero il numero 69610. Da quel momento, smise di essere una persona per i suoi carcerieri. “Neunundsechzigtausendsechshundertzehn”, lo ripeteva spesso. Non per fissarlo nella memoria, ma per ribaltarlo: «Questo è il numero con cui volevano cancellarmi. Invece sono ancora qui».
A Dachau si alzava alle 4.30. Lavorava dodici ore al tornio per una fabbrica della BMW. Quel tornio era il suo rifugio: «Solo lì mi sentivo un essere umano», avrebbe detto anni dopo. La fame era quotidiana, atroce, assoluta. Suo padre, ormai stremato, gli lasciava ogni giorno un pezzetto della sua razione. Una carezza silenziosa, che Mario capì solo anni dopo. «Era il suo modo di dire: resisti». Domenico morì nel marzo del 1945. Mario restò solo. Ma resistette.
Una notte gli rubarono il pane. Piangeva. Un compagno, Valdi, gli diede metà della sua razione. «Dai, dobbiamo tornare a casa», gli disse. Era questo, l’inferno: un gesto piccolo diventava eroismo. Un pezzo di pane, l’ultima frontiera dell’umanità.
La liberazione
Fu liberato il 2 giugno 1945, esattamente un anno dopo l’arrivo. «Libero! Solo libero e basta». Ma il ritorno fu una seconda deportazione, questa volta nell’indifferenza. Quando raccontava, non gli credevano. «Tutti avevano sofferto la guerra», gli rispondevano. Fu un silenzio lungo trent’anni.
Poi cominciò a parlare. Nelle scuole, nei viaggi della memoria, negli incontri pubblici. Ripeteva sempre: «Non si può dimenticare. Dimenticare sarebbe una colpa». Diceva che il suo dovere era «onorare i morti» e «armare i vivi». I giovani dovevano sapere. Dovevano vedere, toccare, capire. Ogni volta che pronunciava il numero 69610, lo faceva per trasformare un atto di annientamento in un atto di testimonianza.
Nel 1958 sposò Anna Maria Zotti, Mariuccia. Le fu accanto per 64 anni. Quando raccontava, lei era sempre lì. Hanno cresciuto due figlie. La loro casa, a Ronchi dei Legionari, è stata per decenni una piccola capitale della memoria civile.
Mario Candotto è morto a 99 anni, pochi mesi dopo essere tornato a Dachau per l’ultima volta. Nel 2023 aveva abbracciato uno dei suoi liberatori. Nel 2025 parlava ancora ai ragazzi. Diceva: «Siamo fortunati: abbiamo un’Europa in pace. Ma la pace non è gratis. Va difesa, con la memoria e con l’amore».
Candotto non ha mai cercato il rancore. Diceva: «La vendetta era l’ultimo pensiero. Dopo tutto quello che abbiamo visto, siamo diventati più umani dei nostri aguzzini». Il dolore non lo ha reso duro. Lo ha reso limpido. Il suo vero lascito non è solo ciò che ha detto. È il modo in cui lo ha detto: ridendo, spesso. Perché la gioia, in fondo, era la sua più radicale forma di resistenza.
© Riproduzione riservata



