L’infinita standing ovation (circa 13 minuti) che ha salutato la fine della prima proiezione di Io Capitano il 6 settembre pomeriggio a Venezia, lasciava presagire vittorie. Miglior regia, miglior attore emergente (il giovane senegalese Seydou Sarr) più vari premi minori, coronano un film straordinario. In quel lungo applauso si è liberato in Sala Grande una serie di sentimenti fin lì compressi.

Di certo appagamento per un capolavoro assoluto che riesce a infilarsi nei meandri dell’inferno terrestre dei fenomeni migratori moderni con il lirismo e la poeticità tipica dei maestri d’arte. Poi commozione per una vicenda di dolore, separazione, violenza e morte. Tenerezza per una storia densa fino all’impossibile di amore, amicizia pura, maternità e figliolanza, umanità nel deserto geografico e sentimentale, luce nel buio.

E infine rabbia. Per un modello di gestione del fenomeno delle migrazioni tutto europeo incapace di elaborare un sistema di accesso legale e controllato, che perpetua questa specie di genocidio permanete simboleggiata nel film da un ragazzino che dopo aver pagato il corrispettivo di migliaia di dollari ed essere arrivato in Niger, cade dal pickup stracarico in mezzo al Sahara e. giovane e vitale, resta lì, solo, un puntino nell’universo prossimo a una morte atroce, nonostante tutti i passeggeri chiedano all’autista di fermarsi.

«C’è bisogno di pensare ad accessi legali, nessuno può fermare chi ha necessità e possibilità di partire». Lo ha detto chiaramente Mamadou Kouassi, uno degli ispiratori del film, che Garrone ha significativamente voluto sul palco accanto a sé al momento della premiazione.

Invece, ossessionata da un’immaginaria invasione mai avvenuta e che mai succederà (l’80 percento delle migrazioni africane sono “intra”) l’Europa erige muri anche in area Schengen (1000 km sparsi in tutta l’Ue), stringe accordi con la Turchia di Erdogan, la Libia e ora la Tunisia dell’autocrate xenofobo Saied, e continua a generare morti nel Mediterraneo  e a spargerli nei deserti, nella carceri libiche o nei confini tra Bosnia e Croazia, tra Bielorussia e Polonia (come denuncia il magnifico Green Border, Premio speciale della giuria). Io Capitano è un’opera d’arte, utilizza il linguaggio della ‘settima’ per raccontare un’odissea moderna. Ma finisce per essere un grido di dolore che urla “Mai più, non così”.

Incontrato nella sua casa romana prima della presentazione e, dopo, a Venezia a margine del  Festival, Matteo Garrone spiega così a Domani genesi, idea, umanità, colori e lirica di Io Capitano.

Garrone, lei si è accostato a un mondo, quello dei migranti, in particolare giovanissimi, molto complesso, qual è stato il suo processo di avvicinamento e cosa l’ha colpita di questa umanità?
«Ho incontrato molti ragazzi personalmente nei centri di accoglienza, tramite amici, operatori, sono venuto a diretto contatto con loro e ho parlato a lungo, singolarmente. C’era chi si sentiva più a suo agio a raccontare la propria storia, chi meno, io nel frattempo ascoltavo e costruivo un puzzle. La base quindi me l’hanno fornita i racconti di Mamadou, uno dei ragazzi a cui ci siamo ispirati (un altro è Fofana, un guineano che a 15 anni, è stato costretto da trafficanti libici a guidare il natante e ha portato in salvo 250 persone. Arrivato in Sicilia ha urlato “Io capitano” ed è stato arrestato come scafista, ndr) e di tanti altri. Fin da subito sono rimasto molto colpito dalla loro umiltà, la capacità di riuscire a vivere nonostante le ingiustizie subite senza mai cadere in atteggiamenti di autocommiserazione, noi per molto meno lo avremmo fatto. Subiscono soprusi incredibili, ma mantengono una carica vitale e una dignità uniche. Penso che questo sia un elemento che ho cercato di non perdere mai di vista, questa spinta vitale che li aiuta a superare le prove più difficili, questa carica spirituale che ho percepito in loro, una fede che gli fornisce una forza maggiore. Il mio primo intento, comunque, era dare forma visiva all’esperienza di questi giovani migranti, ma era importante farlo dal loro punto di vista, con i loro piccoli momenti di quotidianità, come prendono la decisione di partire… raccontare la loro storia con la telecamera girata dall’altra parte, dall’Africa verso l’Europa».

Fare un film su un fenomeno così particolare, sull’Africa, su contesti così diversi dai nostri e farlo da occidentale, bianco, è molto complicato, si rischia di finire in cliché, pietismo o di risentire in qualche modo di quello sguardo coloniale che per quanto aperti, resta dentro di noi. Lei immagino abbia fatto i conti con questi rischi, come ha provato a scongiurarli?
«Ha ragione, è quasi impossibile. Si corre un rischio molto alto. Io, essendone consapevole, mi sono affidato a loro e ho provato a superare il problema ascoltando loro, facendomi aiutare da loro, ero anche fisicamente sempre insieme a loro, in fase di scrittura, davanti e dietro la macchina da presa c’erano loro, erano davanti al monitor e capivo dai loro sguardi se andavamo bene o se stavamo sbagliando. Il film è stato una creazione collettiva, ho messo la mia visione a servizio, mi sono calato nel ruolo dell’intermediario, è stata questa la chiave che mi ha aiutato almeno a cercare di non cadere in quelle trappole».

Può parlarci del cast e del lavoro di mesi tra Senegal e Marocco con attori e personale solo locale. Che esperienza di lavoro è stata?
«La maggior parte degli attori del film sono professionisti, chi più famoso chi meno. In generale ho percepito sempre una grande generosità d’animo che mi ha aiutato a superare ogni difficoltà. Tutti sapevano che stavano facendo qualcosa di importante per chi, come alcuni di loro, ha fatto il viaggio o chi progetto di farlo. Erano consapevoli che stavano aiutando a mettere in luce qualcosa di cui si parla spesso ma si vede poco dall’interno. In generale ho percepito purezza, passione, non avevano troppe sovrastrutture, erano attori semplici nella ricerca delle soluzioni, non cadevano nei virtuosismi o nei narcisismi fini a sé stessi. Sempre molto diretti, mi è sembrato che recitassero col cuore, senza una vera tecnica, ma arrivando col sentimento. Abbiamo voluto che ogni fotogramma avesse una sua verità innanzitutto per rispetto di chi ha fatto questo viaggio e poi, ancora di più, di chi lo ha fatto senza arrivare vivo».

Seydou Sarr e Matteo Garrone (foto AP)

È assurdo che nel 2023 per una parte del mondo non ci sia altro modo per viaggiare che affidarsi ai trafficanti, rischiare la vita e morire. Il suo film è anche un grido disperato, una richiesta: è inaccettabile. Fermiamoci tutti e cerchiamo di immaginare un nuovo modo di gestire la migrazione verso l’Europa.
«Assolutamente sì, dobbiamo cominciare tutti a pensare di aprire le porte. Non si può più accettare che uomini, donne, bambini rischino la vita per emigrare. C’è bisogno di mettere ordine, non è più pensabile che si possa gestire il fenomeno delle migrazioni solo con muri e filo spinato. È un fenomeno che nasce da una spinta vitale, da un desiderio di viaggiare legittimo e umanissimo».

Come in Gomorra, dietro alla cronaca, c’è la storia di un’amicizia. In mezzo alla brutalità più assoluta, alla violenza talora anche senza senso, in questi due film sembra emergere potente l’umanità, la tenerezza.
«È così. Il film parte e si ancora a storie vere, realmente accadute, dietro al film c’è un vissuto e io ho cercato di restargli fedele. Volevo far capire che dietro ai numeri, ci sono persone con famiglie, anime, progetti e sogni, con una propria personalità, ci sono rapporti. Nei racconti si alternavano momenti di speranza a momenti di orrore e ho cercato di restituire questa successione che è evidente in chi vive questa esperienza epica, questa odissea».

Aiuterà a cambiare, a capire di più?
«Il film può sensibilizzare, farà rivivere agli spettatori l’esperienza che vivono i migranti. Non so se cambierà qualcosa, dipende da chi ha in mano il potere. Mi auguro che il film si possa vedere nelle scuole e che i nostri giovani possano capire che privilegi hanno. E che si crei empatia».

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