Giovanna Silva fa come Thomas Jones. Alla fine del Settecento, quando Napoli era una tappa fondamentale del Grand Tour e gli artisti accorrevano da tutta Europa per dipingere le eruzioni spettacolari del Vesuvio e le vedute del golfo a volo d’uccello, riempiendole di pittoreschi popolani e dettagli stucchevoli, Thomas Jones come un punk occupava la sua tela con il muro scrostato del palazzo di fronte alla sua stanza e una striscia di cielo.

Ancora oggi Napoli è oppressa dal pittoresco: un pittoresco fatto dei soliti mare e pizza, del mito di un inesauribile vitalismo e dell’immaginario da Bronx mediterraneo innescato da Gomorra, che ha persino prodotto, oltre alle serie, ai racconti e a innumerevoli campagne mediatiche, uno specifico genere di turismo.

Giovanna ha imposto alla città uno sguardo rapido, ravvicinato, architettonicamente brutale e ironico. I suoi scatti a mano libera, perlopiù prodotti per mezzo di uno smartphone, in esterno e ad altezza d’uomo, hanno per oggetto privilegiato le architetture prodotte nell’ultimo secolo, ma inquadrate per sineddoche.

Niente skyline, nessun panorama, anche il rapporto compositivo con il contesto urbano è invisibile in questi frammenti; pochissimi i palazzi interi, mentre ovunque cancelli, reti, muretti, oggetti incongrui, cespugli da terzo paesaggio, cartelloni, mezzi di trasporto, riflessi luminosi e soprattutto scritte fanno da repoussoir.

Non è sempre facile, anche per chi è di Napoli, riconoscere i luoghi. Ma se si entra nel gioco si leggono le tracce di una storia urbana piuttosto diversa da quella dominante, e molto più articolata.

Una storia di grandi interventi pubblici che dall’inizio del Novecento, e soprattutto dal dopoguerra in poi, aveva riempito la città di nuove sedi universitarie, ospedali, edifici civili e soprattutto moltissime case popolari: dai quartieri INA-Casa degli anni Cinquanta agli interventi della ricostruzione post terremoto degli anni Ottanta sono stati costruiti più di 80mila alloggi, molti di qualità, della cui esistenza pochissimi sono consapevoli, a esclusione delle Vele di Franz Di Salvo, ormai entrate a fare parte delle icone napoletane insieme a Maradona e al Vesuvio.

Mentre nelle altre città d’Italia e d’Europa si riscoprono, dopo anni di pregiudizio neoliberista, i quartieri e le case di edilizia pubblica, la loro funzione fondamentale per la società e la cultura, e spesso anche la loro bellezza, a Napoli questi interventi sembrano destinati a restare nell’oblio, oscurati dall’altra metà della storia, il sacco edilizio.

E del resto la potenza narrativa e il successo globale de Le mani sulla città di Rosi, che vinse il Leone d’Oro a Venezia, hanno saldato in eterno il tradizionale parco metaforico utilizzato per descrivere la città – corruzione, putrefazione, marcescenza, cancro – alla sua manifestazione edilizia, la speculazione che ha invaso le bucoliche colline del Vomero e di Posillipo.

E invece è sufficiente scavallare quelle colline a nord, o varcare la soglia dei tunnel che portano a occidente o affrontare i viadotti di Napoli est per imbattersi in un tessuto urbano caotico, consumato dall’incuria, ma costruito per più di metà della sua estensione dalla committenza pubblica.

Evoluzione urbanistica

Se si eliminano le note di colore, la struttura dell’evoluzione urbanistica dell’immediato dopoguerra è identica a quella di Roma, Milano e moltissime altre città: espansione, rifiuto dei lacci e lacciuoli della pianificazione, rendita.

La crescita urbana implicava una violenta ma disordinata gerarchizzazione dello spazio, rifletteva processi di accumulazione.

E però in quegli anni era costretta dalla congiuntura keynesiana a lasciare sul terreno una piccola e fondamentale parte della ricchezza. Decine di migliaia di famiglie ottennero per la prima volta case vivibili a basso prezzo, e anche se esiste sempre una quota di malcontento la maggior parte ne ricavò un notevole benessere a lungo termine.

Non rassomigliava neanche da lontano a una soluzione equa e definitiva del problema abitativo o a una patente vittoria della giustizia sociale, ma era un buon inizio.

Il piano di edilizia pubblica 

Il terremoto dell’Ottanta si era fatto sentire con forza in città, ma per fortuna aveva prodotto relativamente pochi danni. In compenso rappresentò un’occasione formidabile per attuare un piano di edilizia pubblica nelle periferie che altrimenti non avrebbe mai trovato i finanziamenti. Il Piano delle periferie era scaturito dalla prima e unica giunta comunista che Napoli abbia mai avuto, quella del sindaco Valenzi, e da un processo partecipativo che a quei tempi non fu considerato soddisfacente dai movimenti, ma che oggi parrebbe un’utopia irrealizzabile.

Caso rarissimo nella storia delle catastrofi, le istituzioni decisero di realizzare in emergenza un piano elaborato in regime di ordinaria democrazia. E soprattutto, la ricostruzione post-terremoto fu generosissima sia di abitazioni che di attrezzature pubbliche nonostante il vento fosse già cambiato: la Thatcher era approdata al governo, il neoliberismo aveva dichiarato la sua guerra di classe attraverso l’attacco al welfare e al keynesismo, e la stagione del diritto alla casa era sul viale del tramonto. Anche nel resto d’Italia la stagione intensiva delle case popolari era finita, bollata come manifestazione di assistenzialismo da destra e di paternalismo da sinistra, e simbolicamente Federico Caffè, il più acuto e autorevole keynesiano in Italia, fece sparire ogni traccia di sé nel 1987.

Miracolosamente, nonostante la caduta della giunta e il successivo caos amministrativo, nonostante la corruzione calata in città con la cosiddetta “seconda ricostruzione” che soffocò il territorio con un impossibile intreccio di infrastrutture pesanti, gli abitanti ottennero le case e i parchi promessi.

Fu Bassolino nei primi cento giorni del suo mandato – nel 1993 – a consegnarglieli, con tanto di bimbi in braccio. Dopo di che, a Napoli non si è più costruito nulla sopra terra.

Bassolino non fermò le ruspe e le gru, anzi: ma concentrò tutta l’energia progettuale nel sottosuolo, nei cantieri della metropolitana. Dopo tanti decenni di congestione edilizia, dopo l’orgia di svincoli e viadotti, il nuovo sindaco decise di fare spazio, di investire sul vuoto. Non voleva lasciare il segno con nuovi grattacieli, ma liberando Napoli dalle automobili e dalla pressione speculativa.

Trasporti fermi

Il Piano dei trasporti ha rappresentato un atto di redistribuzione spaziale così concreto e reale che la peggiore borghesia napoletana non ha esitato a lamentarsene pubblicamente, accusando la metropolitana di rovinare la città “portando Scampia in centro”.

Purtroppo la crisi finanziaria, abbattutasi con particolare violenza sul comune di Napoli e aggravata dai tagli alla pubblica amministrazione, ha fatto regredire in pochi anni la situazione della mobilità ai livelli degli anni Ottanta, ma la grandiosità dell’opera pubblica realizzata rappresenta un’opportunità di salvezza, perché impone con più urgenza alla politica la necessità di ripristinarne il pieno funzionamento.

A questa esplosione di architettura ipogea corrisponde, dunque, uno stato di calma piatta in superficie. Non si può dire che Napoli non sia cambiata dall’insediamento di Bassolino, ma la città è stata totalmente esclusa da quei grandi processi di “rigenerazione urbana” che hanno caratterizzato lo sviluppo urbano dell’ultimo trentennio.

Il grande parco di Bagnoli non ha ancora visto la luce e nella periferia est, con l’eccezione di un pubblicizzatissimo campus Apple sorto al posto della fabbrica Cirio a San Giovanni, non si è mossa una ruspa. A nord l’evento architettonico più rilevante è stato il disgraziato abbattimento di tre delle sette Vele di Scampia.

Un nuovo modello?

Il non fare, lungi dal somigliare a una lunga malattia simile alla morte, ha salvato per qualche anno Napoli dalla violenza strutturale della trasformazione liberista delle città. Ha tenuto in vita per lei la possibilità di un’alternativa, che potrebbe essere anche l’inizio di un nuovo modello meno demenziale e disuguale di sviluppo.

La temporanea impotenza dei redditieri potrebbe tradursi nel progetto di un rinnovamento urbano impostato sul pubblico invece che sul privato, sulla manutenzione ordinaria e straordinaria di quel grandissimo patrimonio di case popolari, parchi e infrastrutture che la città ha ereditato dagli anni keynesiani invece che sulla costruzione di case di lusso e alberghi e su un rivoluzionario potenziamento delle attività produttive e agricole in grado di ridimensionare la dipendenza da un’economia fragile come quella turistica.


Il libro “Napoli. Contro il panorama” di Giovanna Silva, Lucia Tozzi è stato pubblicato da nottetempo (2022, pp. 144, 18 euro). Un lavoro che guarda Napoli dando le spalle al panorama, rifiuta il vecchio e il nuovo pittoresco e abbraccia una prospettiva lontanissima dalle scenografie di fascino anarchico o in stile Gomorra che nutrono l’immaginario turistico contemporaneo.

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