Questa settimana, rispondendo a followers su Instagram che gli chiedevano chi altro seguire sul tema della maschilità, Claudio Nader mi ha fatto un bellissimo complimento taggandomi.

Nader pubblica con grande frequenza da molti mesi contenuti nell’arcipelago dei Men’s studies, dialogando in diretta con persone come Stefano Ciccone, il fondatore di Maschile Plurale, o Maria Giuseppina Pacilli, studiosa di psicologia sociale che si occupa di genere.

Il suo tag mi ha ricordato che, specie nelle scienze sociali e politiche, c’è una linea di studi magari non (ancora) celebri ma illuminanti intorno al genere maschile, al comportamento e ai paradigmi, dannosi o liberanti, degli uomini, nel più ampio spettro (così inviso a chi non ne sa niente) dei Gender studies.

Tra questi, quelli che più ci devono rallegrare sono i lavori di chi si sta formando al livello del dottorato di ricerca, promettendo di portare in accademia e nell’ambito di quelle che in America si chiamano public humanities (dire “divulgazione” mi pare riduttivo) una ventata di novità nel segno di carsiche o semplicemente poco note tradizioni di studi. Per esempio Matteo Botto, un dottorando in Sociologia di Genova che sta scrivendo di radicalizzazione misogina in circoli anti-femministi online (tipo Men Going Their Own Way) e che spero scriverà qualcosa anche per Cose da Maschi.

Esplorare (partendo dai loro profili sui social in cui ne fanno già attivismo) i progetti di ricerca di dottorandə italianə che studiano la maschilità mi ha fatto venir voglia di chiedere a chi ha studiato con me cosa ne pensasse del tema della rubrica e della newsletter, che ormai circolano da un paio di mesi.

Da quando ho cominciato a insegnare, pochi anni fa, negli Stati Uniti, ho avuto la fortuna di incontrare discentə straordinariə, e questa settimana ne ho cooptatə due che, dopo aver preso la laurea in studi italiani, stanno ora proseguendo gli studi al dottorato.

La prima si chiama Bes Bajraktarević, è nata e cresciuta in Bosnia, parla più lingue di un ambasciatore e sta studiando letterature comparate ad Harvard, con un’attenzione particolare per gli spazi (filosofici, geografici, linguistici e di genere) di confine.

Per la rubrica, Bes ci regala un articolo in impressionante prosa italiana sulla performance della maschilità (un concetto radicato negli studi di Judith Butler, che fanno tanta paura alle destre identitarie d’Europa) in un bellissimo e inquietante film che ha vinto la Palma d’Oro all’ultimo festival di Cannes: Titane di Julia Ducournau. Lo trovate qui.

Mescolando esperienze personali e analisi cinematografica, brani della trama di Ducournau e appuntamenti con ragazzi insicuri dalle gambe glabre, Bes si domanda perché indossare il travestimento di una maschilità che non esiste, o che non si conosce, sia tanto conveniente, anche per le donne come lei che magari arrochiscono la voce o tagliano i capelli corti non perché lo preferiscano, ma per essere prese più seriamente in certi ambienti. Lo fa a partire dal pezzo che è uscito qualche settimana fa sui caschi e il neofascismo a Roma sud, arrivando a conclusioni che insistono sul potere della vulnerabilità.

Il secondo si chiama Lucas Ramos, americano di origini portoricane che ha scritto una mirabile tesi di laurea su Topolino in Italia sotto il fascismo (!) e ora si sta addottorando in storia moderna e contemporanea a Columbia, con un progetto sulla storia dell’attivismo Lgbtq+ in Italia nel Novecento.

In quel pezzo sui caschi da cui Bes è partita avevo in realtà già menzionato Lucas: era lui l’arguto studente che in classe, di fronte ai deretani delle statue del foro Mussolini, si era messo a ridere, trovandoli assai gay per un monumento a celebrazione del platonico corpo maschile dell’uomo fascista.

Nel suo pezzo, che trovate qui, Lucas ragiona sul fallimento della Legge Zan nella prospettiva più ampia dell’attivismo (e delle reazioni che ha storicamente suscitato) di cui si occupa come studioso, invitandoci a storicizzare i dibattiti sui diritti e a ricordare luci e ombre della ricca storia delle politiche sessuali in Italia.

Nel suo italiano brioso, punteggiato di fatti snocciolati pedissequamente da vero storico, Lucas racconta anche delle sue esperienze di ricerca a Roma e a Milano, compara Lady Gaga a Sophia Loren, e riesuma episodi della cultura gay italiana largamente dimenticati (come la Madonna di Pompei che vuol bene pure ai gay di Ciro Cascina o il martirio di Alfredo Ormando in Piazza San Pietro).

È un mio grande orgoglio aver seguito i primi passi di questə due giovanə studiosə nell’Italianistica, e sono elettrizzato dal mettere in circolo la loro prosa.

Caravaggio, San Giovanni Battista nella selva, 1605, da Wikimedia Commons-Google Art Project

Il tema del mio pezzo era già stato promesso la scorsa settimana: la cosa da maschi di oggi è il calzino: lungo, corto, invisibile, assente, di spugna o di filo di scozia.

Rimaniamo in realtà sul tema dottorandə, perché lo studioso a cui mi sono rivolto per parlarne, con la sua affabile erudizione ascetico-edonistica e il suo atlante mentale d’immagini à la Warburg mi fa sentire, appunto, un incantato dottorando assetato di sapere. Mi riferisco a Michele Matteini, professore di arte cinese alla New York University, con cui ho conversato di piedi nostri e d’altri, calzati e non, da Caravaggio a Tom Cruise.

Il risultato della conversazione lo trovate qui, e torna su una questione ormai ricorrente nello scandaglio delle cose che costruiscono la nostra idea materiale ed estetica della maschilità: il fragile, il vulnerabile, il debole (e il loro angosciato antidoto: l’armatura, in tutte le sue forme). Anche il calzino funziona un po’ come uno scudo, ma in modo diverso rispetto alle cose di cui abbiamo già parlato (camicie, caschi, divise, collane).

Con Michele abbiamo parlato di moltissime immagini, a partire da Narciso e San Giovanni caravaggeschi (echeggiati nella Ricotta di Pasolini): Josh O’ Connor e Russell Tovey con calze di diverse lunghezze e colori, Justin Bieber e Adam Levine con insospettabili fantasmini e crocs con calzino a coste, il filo di scozia blue navy di Marlon Brando ora all’asta (ci siamo confessati che entrambi abbiamo quest’ultimo come modello platonico in mente, anche se metterlo ai piedi è sempre più difficile perché non li vende più nessuno).

Ma l’immagine che ci ha più ipnotizzato è uno still da Risky Business in cui un giovanissimo Tom Cruise, in camicia e mutande, danza nel salotto più suburbano d’America indossando i calzini bianchi di spugna, simbolo di una certa maschilità statunitense che sta espandendosi in tutto l’occidente.

Quei calzini bianchi da spogliatoio obliterano i piedi, ne interrompono la forma, li nascondono, rivelando un terrore di castrazione, un’indisponibilità alla seduzione, proprio all’apice della disponibilità godereccia e senza peccato degli anni Ottanta. Ci ricordano che una coda di paglia primigenia nel paradigma del maschile (a meno di non essere Michele Serra, che certo non ha colpa se è nato maschio, etero e bianco) è l’ansia di diventare oggetto, e non più solo soggetto, dello stesso sguardo che si riserva alle donne, e che un tempo era codificato anche nei confronti dei giovani uomini – quando ancora non indossavano calzettoni di spugna.

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