Finita la camionata di ghiaia biologica e materica rovesciata su Milano dal “Mobile” – come si dice – che fa sgorgare lacrime di gioia alcolica alla città, quel che rimane sono “disininstalli”, smontaggi di baracconi per eventi, scatole imballate. E una calura schifosa che rende le cose tutte bianche, anche i camion e i cristiani che invece lavorano adesso, dopo che tutto questo uragano di liquidi sembra essere finito. Basti pensare al conteggio sui gigalitri o tetralitri di vino bianco consumati durante la Design Week e calcolati qualche anno fa dalla Bocconi, e ormai siamo al triplo.

Già se ne vanno in giro i modelli sempre magrissimi e sempre più pischelli, e sempre più diafani delle sfilate-uomo che iniziano sabato. Li vedi coi bordi del tuo occhio, come apparizioni, mentre scivolano col book in mano, e tentano la lotteria dell’essere scelti. L’opposto delle figure professionali, e certo giovialissime, che strombazzanti andavano in giro la settimana scorsa ovunque, come se la città avesse bisogno di riempire ancora dei buchi, presa da tempo da un terrore ferocissimo per il vuoto, l’inutilizzato, l’inutile, il desueto, lo sporco.

Un nuovo spazio urbano

E invece era proprio qui, dentro all’inservibile, che bisognava guardare. Nei 15 magazzini inutilizzati lungo i binari della stazione Centrale – oltre la storica e indimenticata venue musicale del “Tunnel” e oltre l’ormai spantegato minidistretto gay – Andrea Caputo ha, con uno sforzo titanico, messo in piedi un centro “libero” di riflessione sull’architettura e il design che è stato inaugurato in forma lieve per il Salone, ma che d’ora in poi verrà usato come spazio di lavoro o coworking per giovani studi di architettura, come libreria e biblioteca, come ambiente per mostre, per far musica e anche registrarla, come luogo aperto.

I tunnel sono molto grandi, la ristrutturazione è appena iniziata, e tutto cambierà in continuazione. Ma certo sono state migliaia le ragazze e ragazzi che lo hanno invaso seguendo la selezione di musicisti invitata a fare dei set per cinque sere di fila, o partecipando al programma di pacate conversazioni dentro l’auditorium improvvisato, fatto con le panche di legno dei vecchi treni.

Una non-Milano che è invece una Milano che speriamo ci sarà, una nuova modalità di intervenire sullo spazio urbano che scavalca l’ossessione per zone e quartieri a cui trovare il nome, e prova a costruire una città differente. Il progetto si chiama “Drop City”, non a caso, ed è un omaggio a una comune utopica nata in Colorado nel 1960, con proto-hippies che costruivano capsulone di Buckminister Fuller.

Cambi generazionali

Insomma, un cambio generazionale, parliamoci chiaro. Con un’attenzione al vivere insieme –  anche solo dei giovani progettisti – alle sue pieghe più delicatamente fertili. Le stesse che abita spesso il collettivo che ruota intorno al progetto di Dafne Boggeri, “Sprint”, che ha creato nell’assurda struttura ortogonale vuota, dentro la fermata del passante di Lancetti, un padiglione di ricerca e un laboratorio ipersostenibile di stampa, per arrivare a produrre una piccola pubblicazione, una fantastica fanzine come sempre instabile.

“Sprint”, supportata in questo da SlamJam, ha esteso un invito a partecipare al think tank 2050+ di Ippolito Laparelli Pestellini, che qui ha messo in scena “Dancing in Transit”, raggruppando e comparandole con mosse di ludotaintement le performance dei dancer filippini di piazza Gae Aulenti, dei fantastici boliviani over-the-top Capolares Saint Simon Usa-Milano. Oltre a quelle ormai leggendarie della crew di vogueing che si raduna ogni mercoledì sera al Lazzaretto, da un anno a questa parte.

Queste ultime in particolare sembrano farfalle meravigliose e potentissime, sempre a rischio da un momento all’altro di schiantarsi contro le luci bianche della città. Proprio come quelle che si vedono lì vicino – alla galleria Zero – nell’appena inaugurata mostra personale di Giorgio Andreotta Calò. Bozzoli, bruchi, grate di metallo e un pazzesco film di mezz’ora in una serra di gestazione di falene in Olanda, con uno stranissimo essere umano al suo interno – un giovane entomologo dilettante trovato da Calò su Youtube – che si fa subito coprire faccia, il corpo, e i vestiti da meravigliosi farfalle con ali coloratissime. Che spesso cadono a terra, e diventano gusci vuoti, sparsi ovunque.

Una mascolinità positiva

Una giacca con maniche ricoperte di falene che ancora una volta anticipa la fashion week istericamente in arrivo. Di farfalle, colibrì, giacche luminose e visioni arcobaleno del futuro sono piene zeppe le canzoni, dallo straordinario design di semplicità affinata ad arte di Cesare Cremonini, il cui concerto ha aperto lunedì la stagione delle messe cantate allo stadio di San Siro, e il suo tour negli stadi di tutta Italia.

Al di là dell’architettura sonora delle hit di partenza, fatta di geometrie di composizione e d’arrangiamento disegnatissime, è la tenerezza di tutti i 60mila arrivati allo stadio che travolge. E travolge pure Cremonini che si presenta come uno di noi. Sotto la maglietta che indossa si vede la “buzza” da troppe serate, il tatuaggio inguinale comunissimo – come pure quelli alle braccia – e persino un pezzettino di taglio in mezzo alle natiche salta fuori ogni tanto.

Come succede anche a noi. Una mascolinità positiva con il proprio corpo che non fa che andare di pari passo con una certa goffaggine nel ballare, e pure nel cantare ogni tanto – ma mai nei momenti migliori al piano solo – e che ce lo rende ancor più vicino, Cesare.

Come del resto ben si vede specie da uomini di tutte le età che cantano finalmente romantici a squarciagola, e sembrano quasi aiutarlo in questa prima data, importante dopo la pandemia. E non bastano le spaventose scenografie, per quanto mastodontiche, con video orrendi e oltre ogni cattivo gusto, e le fiamme e i cotillons che non servono a un cazzo, e che bisognerà cambiare, per entrare in sintonia col resto.

Perché è ancora una volta la commozione, l’umanità pura, quello che siamo venuti a cercare qui a San Siro ed è la stessa che guida a fine concerto decine di migliaia di fan verso la metropolitana che si imballa subito. E allora proviamo ad andare via con tram dai numeri mai sentiti, e invadiamo la città ovunque, per forza, finché la metropolitana finisce il turno e chiude, e alla fine arriviamo a casa a piedi alle due. La settimana scorsa è alle spalle. Con questi quattro fragili incantesimi, ci siamo ripresi la città.

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