Al suo ultimo festival vinse una canzone che citava Eraclito, Buddha, il Nirvana, perfino Karl Marx. Gabbani volò con Occidentali’s Karma all’Eurofestival che si sarebbe tenuto a Kiev. In otto anni è cambiato il mondo. Governava il Pd, oggi FdI che nel 2017 aveva 12 deputati e un senatore. In questo nuovo paradigma che un po’ naviga e un po’ scansa, il conduttore ha preso le sue precauzioni per non restare travolto
L’ultima volta che Carlo Conti si era presentato in pubblico da gran sacerdote di Sanremo, il festival che racconta l’Italia con la musica stava celebrando Francesco Gabbani e la sua ingannevole canzone. Ingannevole perché si presentava leggera come una piuma, ma portava dentro uno spessore che si sarebbe detto fuori posto. Citava Eraclito, Buddha, il Nirvana, perfino Karl Marx, ironizzando sulle incongruenze nel rapporto tra noi occidentali e la cultura orientale, il gigantesco paradosso tra il bisogno di spiritualità e l'importanza che diamo all'apparenza.
Gabbani si fece accompagnare sul palco da un uomo travestito da scimmia, citazione e omaggio all’etologo Desmond Morris. Perché Sanremo è Sanremo soprattutto quando spiazza. A Palazzo Chigi lavorava Paolo Gentiloni, il Pd guidava il governo dopo il trauma del referendum perso da Matteo Renzi. Fratelli d’Italia aveva 12 deputati e un senatore. Con la vittoria di Occidentali’s Karma, Gabbani andò a rappresentare la canzone italiana all’Eurofestival. Si teneva a Kiev. In tutta evidenza era un altro mondo.
Nuovo paradigma
Sono passati otto anni e Carlo Conti dà l’idea di dover prendere le misure a questo nuovo paradigma che un po’ naviga e un po’ scansa. Aveva promesso di mandare il festival di Amadeus a una cura dimagrante, facendo scendere le canzoni da trenta a ventiquattro. Sono ridiventate trenta più quattro nella sezione Nuove Proposte. Una superfetazione interessante soprattutto per un motivo: allude senza dire a quante pressioni devono essere passate dalle sue parti.
Conti deve essersi guadagnato un gran paracadute. Questo l’Italia festivaliera ha pensato all’annuncio della lista dei convocati, certe presenze erano apparse eretiche, lui dice coraggiose. Il nome di Emis Killa è nelle carte dell’inchiesta aperta dalla procura di Milano sugli affari degli ultrà rossoneri. Viene descritto come legato agli indagati, lui non lo è (Conti: «Secondo voi il direttore artistico deve controllare di chi è socio ogni partecipante al festival?»).
Fedez e Tony Effe si erano appena lasciati alle spalle il famoso dissing, per non dire del fatto che il milanese è pur sempre agli occhi del governo attuale quello del bacio a Rosa Chemical, apriti cielo. Poi lo abbiamo visto e sentito dialogare di canne, alcol e fascismi con il generale Roberto Vannacci e allora tanta vis eretica è parsa diluita.
Così come annacquato, annacquatissimo, sembra il rap che sentiremo sul palco tra l’11 e il 15 febbraio, un rap fluido, chiamiamolo sfumato per non allarmare qualcuno, un rap che sa di pop, senza militanza. «Non mi sarei mai permesso di dare indicazioni agli artisti sui testi dei brani da presentare», dice Carlo Conti. Si saranno dati una regolata da soli.
Niente attualità
Quando nella mattina di lunedì 20 gennaio ha tolto il velo al suo lavoro di direttore artistico e ai pezzi scelti, nella corda è rimasto attorcigliato qualche nodo. Il suo ritorno a Sanremo dopo Occidentali’s Karma ha espulso dal palco l’attualità. Il prossimo festival canterà di rapporti personali e sentimenti, amori nati, amori finiti, come sto io, come stai tu. Canterà l’illusione di star meglio e la necessità di scappare, cercare da qualche parte un rifugio. «Non vuol dire che non parleremo di immigrazione e di guerra, magari lo faremo con gli ospiti», si è difeso.
Come un ministro delle Finanze alle prese con la manovra di bilancio, con 34 canzoni da gestire deve cercare gli angoli giusti dello show da tagliare. Per la serata delle cover sta sollecitando duetti fra artisti già presenti, così se ne risparmia qualcuno. Lui dice che è solo un’opportunità, non basterà per non arrivare alle due di notte. E allora i tagli riguarderanno tutto l’apparato che rende Sanremo qualcosa più di Sanremo: «I monologhi delle protagoniste femminili – dice lui – e dei comici».
E però. Se Sanremo diventa una sfilata di canzoni in purezza, bisogna che le canzoni siano solide. Non lo sono. Potevano bastarne ventiquattro, forse venti. È come la Serie A di calcio che potrebbe scendere a diciotto-sedici squadre senza rimpianti. Conti parla di un menù da gusti vari. È vero guardando i nomi degli artisti, assai meno ascoltando le canzoni, un muro di suono per buona parte omogeneo, con produzioni simili, autori che appaiono in più canzoni, giri armonici che si ripropongono come peperoni, la totale inedita assenza del rock.
«Nessuno mi ha portato pezzi rock – spiega Conti – né il rock cattivo che piace a me, nemmeno il rock di facile ascolto. Non ce n’erano». Per compensare l’ospite della seconda serata sarà Damiano dei Maneskin.
Starnuti che diventano terremoti
Proprio come dentro il governo, Conti ha dovuto disinnescare un pericoloso conflitto di interessi alle porte, il contratto da testimonial di Giorgia con la Tim, sponsor pure del festival. «Il suo contratto è scaduto il 15 gennaio. Non c’è Giorgia negli spot durante il festival. Non potevo non ammetterla perché è stata testimonial di un'azienda che in quei giorni stava trattando per rientrare nel festival».
È tra le righe degli aneddoti riferiti che si nasconde un moto d’ansia. «Otto anni fa dissi a Maria De Filippi che Sanremo è quel posto dove uno starnuto diventa un terremoto». Lui si è premurato di arrivarci senza rischi, con un adeguamento anti sismico e con la promessa di non finire a notte fonda. Il vero nemico da oggi gli è chiaro: lo sbadiglio.
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