Com’erano i padri di una volta? I romanzi e le autobiografie del passato erano reti che catturavano padri feroci per esporli in gabbia ai lettori. Si scriveva contro il padre, per smascherarne l’indole insensibile e ottusa. Il padre non capiva i figli, contrastava le loro aspirazioni, li pretendeva ossequiosi ai suoi princìpi; possibilmente, che scegliessero studi e mestiere e compagni di vita che piacevano a lui.

I figli si trovavano in una situazione frustrante: se esistevano fisicamente lo dovevano ai genitori; perciò, anche quando il padre era cattivo, era pur sempre colui che aveva dato loro le parole, comprese quelle per parlargli contro: la rimostranza dei figli sbatteva addosso a questa contraddizione.

Ogni libro scritto contro i padri si ritrovava a omaggiarli suo malgrado anche quando li sbeffeggiava e li demoliva, perché era stato motivato da loro. Il padre minava le fondamenta del discorso che parlava male di lui: «Sei un mio prodotto anche tu. Sei stato scritto perché ti ho suscitato io. Senza di me non esisteresti». Così il padre poteva farsi bello pure dei libri che lo accusavano. Il suo ghigno soddisfatto affiorava a ogni pagina.

L’ancien régime dei padri autoritari pulsa come una stella morta che irradia sul nostro tempo ancora qualche ombra, rara ma possente. Basta pensare a Leggenda privata di Mari, una resa dei conti in cui il torvo monumento del padre Enzo si autoedifica nelle parole del figlio Michele. O al padre di Tommaso Giartosio in Autobiogrammatica, senz’altro più morbido, ma comunque perentorio e legiferatore di regole famigliari.

Come ha fatto notare Paolo D’Angelo su questo giornale, la nostra è piuttosto un’epoca di padri vulnerabili. Lo erano i padri depressi della Traversata notturna di Andrea Canobbio e della Casa del mago di Emanuele Trevi, pubblicati l’anno scorso. E, adesso, lo è quello di Dario Voltolini, che ne fa un ritratto toccante nel suo recente Invernale.

Il macellaio ferito

Ciò che racconta si può riassumere in poche parole, senza temere di rovinare la lettura, perché la forza dei libri di Voltolini sta nella scrittura, nel suo modo plastico di capire le cose descrivendole. È una specie di scultore che lavora con le parole al posto della pietra o del metallo. Questa volta, la sua materia prima è la carne, quella animale e quella umana.

Ecco la trama. Il padre fa il macellaio. Un giorno si taglia via quasi per intero un pollice. Glielo riattaccano. Torna al lavoro, ma è meno sicuro di sé. E, in più, comincia inspiegabilmente a indebolirsi. Finalmente una diagnosi svela che un batterio gli ha infettato il sangue. Forse lo ha contratto a causa di quella ferita al dito. In ogni caso è una contaminazione che proviene dalle bestie che macella per mestiere. In lui si sviluppa un tumore. Con i famigliari va avanti e indietro in Francia a farsi curare. Quando muore ha cinquant’anni. Il figlio Dario ne ha ventitré.

Ora, bisogna dire che i libri di Dario Voltolini sono esperienze speciali perché non danno per scontati i personaggi e, ancora prima, le persone stesse. Il tema principale della sua scrittura, secondo me, è il principium individuationis. In altre parole: com’è che si ottiene consistenza ontologica nella vita. In che modo l’esistenza si delinea, acquisisce un contorno, guadagna spessore. Che cosa ci rende presenti al mondo, separandoci o mescolandoci a tutto ciò che non siamo.

Perciò nei libri di Voltolini non c’è mai un soggetto già definito in partenza. Ci sono, invece, delle forme cave, che ricevono la loro densità dall’ambiente che occupano, dalle cose che fanno. Così il padre macellaio di questo memoir cresce a poco a poco sotto i nostri occhi grazie all’accumulo degli effetti che i suoi gesti provocano: le membrane che scolla dai muscoli e i tendini che recide, le entragne che estirpa, i ventricoli e i cervelli che trancia. Invece della sua indole in azione, vediamo le sue conseguenze, ciò che essa causa nei corpi delle bestie morte.

Leggo Dario Voltolini, e mi chiedo: forse dovrei cambiare prospettiva anch’io su di me, smettere di considerarmi un soggetto pensante e agente, per riconoscermi piuttosto nei complementi oggetti che provoco. La nostra specie non è la mentalità che esprimiamo, ma l’ecatombe di animali che causiamo. Noi siamo la catasta di cadaveri animali che produciamo, fracassiamo e ingurgitiamo.

Maestria disturbante

La maestria nel raffigurare le cose, in Dario Voltolini, è così vivida da risultare beneficamente disturbante, quando si applica ai tessuti organici, alle viscere, ai liquami corporei. Anche in ciò si vede che per lui la scrittura è un modo di intensificare la sua (e nostra) presenza nel mondo, per darle consistenza. La parola non è un’astrazione, ma il varco attraverso cui ci si getta nella voragine.

In Invernale questo varco è il padre. Ed è davvero un genitore tipico delle generazioni che ci hanno preceduti. Si occupa del lavoro sporco, così come si carica sulle spalle la carcassa di un bove scuoiato quando va a prenderla in frigorifero per tagliarla e venderla nella sua macelleria, nel cuore popolare di Torino, a Porta Palazzo negli anni Settanta.

Affronta la responsabilità di immergere le mani negli organi insanguinati, di spaccare le bestie per ridurle a cibo. È un traghettatore dei cadaveri bestiali, li porta dalla selva alla civiltà, dalla cella fredda al banco di vendita, facendoli passare per il lavoro dei suoi coltelli; è un razionalizzatore del caos corporeo, un geometrizzatore che trasforma le bestie sventrate in bistecchine e costolette rifilate con ordine, a regola d’arte.

Da piccolo, mia nonna, nelle campagne trevigiane, mi faceva andare nell’altra stanza quando doveva tirare il collo a una gallina o ammazzare un coniglio con un pugno in testa. «Va’ via, non guardare!». Mi preservava dalle brutture della vita, dalle sue necessità.

Una delle mie letture più proficue di questi decenni è stata Homo comfort di Stefano Boni (pubblicato da Elèuthera); mostra che l’occidente viziato di comodità delega sempre di più agli stranieri immigrati il contatto con la morte, l’agonia, la malattia, la vecchiaia, la sessualità mercenaria, la pulizia delle case, l’igiene corporale, la macellazione, il contatto con la materia organica sudicia, il trattamento delle sostanze che diventano cibo.

Un esercito di addetti arrivati qui dall’oriente asiatico e slavo, e dal sud africano, cura, assiste, deterge, lava, trita, spina, dilisca, spignatta, inietta, disinfetta, stimola; lavora affrontando per noi lo schifo, il viscido, il putrido. Il padre di Invernale appartiene alle generazioni di europei che queste cose le toccavano e maneggiavano normalmente.

Quando inizia il tramonto

Dei despoti vecchio stile era liberatorio raccontare la destituzione. Voltolini invece assiste con angoscia al tramonto del padre. (Mi chiedo se non provenga anche da lì, da quell’avere vissuto da giovane la dissolvenza del suo caro padre, la sete malinconica di consistenza che Voltolini esprime nei suoi libri, il suo bisogno di corroborarsi con un principium individuationis; è un’ipotesi che forse spiegherebbe non solo una delle caratteristiche della sua scrittura, della sua ricerca poetica e umana, ma anche una necessità di quest’epoca: sentiamo il peso dell’astrazione perché abbiamo sofferto la dissoluzione dei padri; cerchiamo la solidità e la concretezza che ci sono state sottratte dal loro svanire).

Invernale identifica il momento preciso in cui il declino del padre è iniziato: la mossa sbagliata che ha tagliato il pollice, il contagio tra ferita umana e sangue animale contaminato. Da quel punto inizia lo sprofondamento, non più nei recessi della carne animale, ma in quella della nostra specie. Prima, il padre si inoltrava nella viande e meat commestibile.

Ora è il figlio a indagare chair e flesh del padre malato. Fra i due si instaura una fortissima intimità, che è più consueto ritrovare nelle storie di madri e figlie. È un legame che si fa sentire anche a distanza: un giorno il ventitreenne Dario, alle tre del pomeriggio, sente il suo corpo raffreddarsi di colpo; un sudore glaciale lo fa tremare. Scoprirà poco dopo che proprio a quell’ora suo padre stava morendo, mentre tornava a casa in ambulanza dalla Francia; in quegli istanti ha pronunciato le parole: «Salutatemi Dario».

Così, nell’ultima pagina, la comunicazione con il padre morto, che riesce a oltrepassare lo spazio e il tempo, è ciò che resta a Dario quarant’anni dopo, oggi. Ha trovato la sua consistenza in un’assenza metafisica molto concreta, finalmente solida. Il suo punto d’appoggio è una specie di preghiera che non si può rivolgere a nessun dio, ma solo al padre: «Magari qualcuno o qualcosa o un niente, di quelli imprevedibili persino per lui, gli sarà attorno nel non spazio, gli potrà far venire nella sua non mente una soluzione per me che, chissà, riuscirà a comunicarmi o a far capitare».

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